E’ il titolo di un dimenticato e delicato film di Eriprando Visconti, nipote di Luchino. Uno dei pochi incontri felici tra Milano ed il cinema, tra l’altro gratificato da una raffinata colonna sonora di un John Lewis ‘third stream’ di spontanea, elegante leggerezza. Uno dei tanti ‘invisibili’, inspiegabilmente oscurato nel profluvio di immagini futili da cui siamo sommersi.
Con qualche approssimazione e qualche inquietudine in più, la Milano di Visconti è anche quella in cui comincia “La Filosofia di John Coltrane” di Giacomo D.Ghidelli, edito da Mimesis. E’ un titolo un po’ fuorviante, a dire il vero, ma è coerente con un’intera serie omonima dedicata dall’editore all’incontro di vari autori con musicisti che li hanno formati, prevalentemente si tratta di uomini del rock (quello vero in presa diretta sulle emozioni, non quello plastificato e celebrativo), ma non manca qualche volumetto in cui il mentore di turno è un jazzista. In primo luogo, un benvenuto a Mimesis che si aggiunge alla striminzita pattuglia di desperados che ancora pubblicano libri sulla musica, jazz persino… il suo catalogo contiene anche altre cose a riguardo (Marangolo su Shorter, una summa delle fatwe dell’Herr Doktor Theodor W.Adorno sul jazz, ce ne occuperemo quantoprima, abbiamo un debole per i duelli…).
Il volumetto è diviso in due parti ben distinte, la prima è una sorta di memoir in cui Ghidelli rievoca il suo approccio ed il suo innamoramento per Coltrane nella Milano dei tardi anni ’60, la seconda una lunga intervista a Claudio Fasoli anch’essa imperniata sul suo rapporto con l’uomo di Hamlet. Devo dire che è l’ educazione sentimentale in musica di Ghidelli quella che mi ha intrigato di più, le interviste ai nostri musicisti sono genere ormai quasi inflazionato, le loro considerazioni sulla pietre miliari della tradizione jazzistica sono spesso filtrate dalle loro personali concezioni musicali e raramente hanno un rilievo per a crescita della cultura musicale dell’ascoltatore medio.
Viceversa l’ amor fou di Ghidelli per Coltrane mi ha molto più coinvolto, anche perché ha fatto scattare un parallelo con la mia vicenda di approccio alla musica della mia vita. Contestualizziamo, però: la narrazione di Ghidelli inizia nel 1967, quando io ero ancora alle scuole medie, periodo del quale non ho alcuna memoria musicale: io sono arrivato al jazz intorno al 1972, e curiosamente anch’io ho trovato praticamente subito Coltrane sulla mia strada. Cinque o sei anni di differenza, quindi, ma quelli erano ‘anni pesanti’, che correvano veloci e densi di eventi anche nel quotidiano, per cui possiamo dire che tra me e Ghidelli passa almeno una generazione di differenza.
Mille lire di didattica, cartesiana chiarezza. Oggi costa €.38,00…
Invidio molto a Ghidelli il suo Franco-Virgilio che lo ha accompagnato nei suoi primi approcci con la musica afroamericana, pur con le sue sentenze talvolta sommarie ed inappellabili (“… Modern Jazz Quartet? … quelli di nuovo non hanno proprio niente. E poi fanno una musica che fa addormentare anche gli uccelli”), crimini della passione per cui personalmente nutro molta più indulgenza che per le sciape banalità ‘ortodosse’ orecchiate ai cocktail party che oggi sono moneta corrente. Io viceversa ho avuto solo dei mentori di carta, e cara grazia che all’epoca esistevano ancora i remainders club, dove scavando potevi trovare per mille lire il ‘Libro del Jazz’ di Berendt in spartana edizione tascabile, fuori catalogo da anni.
Saremo anche gli ultimi, ma ‘veniteci a prendere…’, come si diceva nei film di una volta… (D-Day, il giorno prima)
Da quel che scrive, Ghidelli mi sembra appartenere a quella pattuglia di Ultimi Mohicani per i quali c’è un solo modo di ascoltare, anzi di vivere la musica: insieme. Mi onoro di essermi arruolato da subito in questa tribù, idealmente però, dal momento che per moltissimi anni non ho potuto condividere questa passione (che anzi si è spesso tradotta in un handicap sociale…), cosa che ha molto pesato ed inciso sulla mia crescita di ascoltatore consapevole. Tra parentesi, se penso a tutti quei trendyssimi scrittori inglesi de “quelli che hanno meno di cinquant’anni e ascoltano solamente jazz sono probabilmente invasati o snob”, mi viene da pensare che è proprio ‘roba dura’ quella a cui si dedicano con tanto entusiasmo e fuori tempo massimo.
Non si ricordano foto pubbliche di Trane in cui sorrida…
Il colpo di fulmine di Ghidelli con Trane inizia con ‘Giant Steps’ e finisce nella cenere della disillusione pochi anni dopo prima con ‘Ascension’ e poi con ‘Live at Village Vanguard’, con l’irrevocabile scioglimento dell’epocale quartetto con McCoy Tyner, Garrison e Jones: questa è una parabola comune a molti autentici cultori di Trane, che si sono in qualche modo sentiti abbandonati da lui sulla strada di una corsa all’infinito verso remoti e forse inattingibili territori dell’inesprimibile. E non c’è di peggio delle passioni tradite e non più corrisposte: nel caso di Ghidelli mi sembra di capire che l’addio all’ultimo e più estremo Coltrane abbia coinciso anche con un distacco tout court dall’intero mondo della musica afroamericana, rientrato solo molti anni dopo grazie all’incontro con Fasoli e forse anche a mutate circostanze di vita (l’autore nel frattempo aveva abbandonato un opprimente lavoro ‘square’ per addentrarsi nel campo allora pionieristico e veramente ‘creativo’ della pubblicità, si era sposato, si era diviso tra lavoro e studi ecc.). Probabilmente in quegli stessi anni del ‘distacco’ di Ghidelli io approdavo al jazz, e proprio con l’ascolto di quei dischi che per Ghidelli avevano cominciato ad incrinare la sua travolgente passione: “A Love Supreme”, e soprattutto ‘Ascension’, i cui primi minuti sono stati una delle mie più intense ed indimenticabili esperienze di ascolto, una musica che inizia là dove molte finiscono.
Devo ammettere che anche per me la musica delle ultime formazioni di Trane è rimasta una porta chiusa, un monolito misterioso ed impenetrabile; devo anche confessare che da allora nutro tenacemente una delle poche idiosincrasie di ascoltatore che mi conosco, quella verso Pharaoh Sanders (Alice McLeod non la calcolo nemmeno). Però oscuramente e confusamente intuivo che al centro dell’opera di Coltrane c’è sempre stata una ‘musica dell’estasi’, prima soffocata e dissimulata da situazioni esterne, e poi esplosa non appena il nostro ha raggiunto una posizione di sicurezza ed autorevolezza tali da consentirgli di esprimersi senza limiti, per di più in quelli che sarebbero stati gli anni finali della sua breve vicenda umana. Una musica estrema e liberatoria che nasceva anche dal rigetto e dalla silenziosa protesta di Trane per una realtà americana e mondiale che contraddiceva e quasi irrideva la sua sincera ed autentica visione mistica e spirituale del mondo e della vita, quella ‘religione con un dio senza nome proprio’ splendidamente ritratta in ‘Chasin’ Trane’ di Scheidmann, magnifica biografia in immagini e suoni dell’uomo di Hamlet.
Una corsa verso il suono originario ed universale, in grado di contenere in sé tutti i significati, che forzatamente non ammetteva condivisione ed elaborazione collettiva con partner alla pari come i McCoy Tyner, i Garrison, gli Elvin Jones, ma tutt’al più il limitato contributo di comprimari destinati ad elaborare dei semplici sfondi, un po’ come i cartoni preparatorii delle botteghe dei grandi pittori del Medioevo e del Rinascimento. Ora che ci penso, si tratta di una via di ‘solitudine creativa’ comune anche all’ultimo Miles Davis del ‘ritorno’, altro artista frainteso e sostanzialmente incompreso, che il nostro Ghidelli guarda un po’ dall’alto in basso nel momento della sua consumante passione con Trane: in fondo anche “Bitches Brew”, un disco del 1969 che ancora oggi suona in gran parte ‘futuribile’, ha generato legioni di amanti traditi e talvolta rancorosi (l’epiteto ‘commerciale’ riserviamolo però a chi per anni ha registrato dischi tenendo d’occhio le statistiche di vendita invece che gli spartiti… è superfluo far nomi, qualcuno non ha ancora perso il vizio oggi, nonostante la tarda età… e viene trattato ben più benignamente).
La solitudine creativa dell’ultimo Miles non è stata una trovata di marketing…
Se già negli anni della ‘scalata la cielo’ la ‘musica dell’estasi’ pienamente liberata risultava ostica e respingente, figuriamoci nei nostri attuali che dal punto di vista artistico e creativo vedono prevalere la fatuità eclettica e citazionista del Post Moderno. Mi diverte però notare a volte che molti frammenti sparsi di quell’idolo impenetrabile eretto dall’ultimo Trane di fatto si rinvengano oggi anche in musiche lontanissime dal suo mondo e dalla sua profondità: paradossi della bulimia dell’eclettismo combinatorio od oggettiva ineludibilità di un’eredità creativa gigantesca? Ad ognuno la sua risposta.
Questo poster esisteva veramente…
Mentre Ghidelli si allontanava temporanemente dal jazz sulla spinta della disillusione, io invece reagivo cominciando a risalire ‘per li rami’ del grande albero della tradizione jazzistica con ascolti sempre più ‘guidati’. Allora era ancora possibile, perché, pur fronzuto ed intricato, quello del jazz era ancora un albero con un tronco e dei rami bene identificabili e percorribili con l’ausilio di un minimo di documentazione: non so se altrettanto sia possibile nella fitta e debordante giungla della musica di oggi, per la quale mancano ancora ‘mappe’ critiche sufficientemente assestate (ed a mio avviso tuttora di ardua tracciatura).
La ’educazione sentimentale’ degli ‘ascoltatori selvaggi’ di oggi è quindi molto più problematica, precaria ed aleatoria: chissà quanti per circostanze casuali mancheranno quell’incontro con la musica della vita che a me ed a Ghidelli ha dato tanto. Del resto, e con buona pace dei saggi studiosi, tutti si inizia da ‘ascoltatori selvaggi’ mossi dall’emozione e dalla passione, con tutti gli scotti del caso, che è proprio compito di ‘color che sanno’ farci superare, senza dimenticare però che senza preservare ed alimentare l’iniziale scintilla di passione in musica non si va da nessuna parte.
Come nella vita, del resto. E chiudo con una riflessione ispiratami dagli scorci della Milano di allora che Ghidelli ci regala qui e là in margine alla sua narrazione. La Milano dura, ma aperta che rappresentava la meta finale di tanti ‘treni della speranza’ in fuga da secolari arretratezze e disperazioni; quella dello splendido “Rocco ed suoi fratelli” di Visconti, il grande romanzo in pellicola degli anni ’60, poteva ben essere la Chicago italiana, e con il suo mix di asprezza dell’oggi e di sogno ad occhi aperti del domani poteva generare una musica capace di narrare e sublimare questo contrasto, questa dialettica, similmente a quella di Ellington, di Parker, di Roach, di Mingus (soprattutto lui…), di Davis (la serenità apollinea ha sempre un lato oscuro..) ed infine di Coltrane…. E’ stato così? Oppure l’oggi ci dimostra che è stata un’altra delle tante occasioni perdute della nostra storia recente? Anche qui, ad ognuno la sua risposta, io ho la mia, purtroppo non consolatoria, né rasserenante. Amara e disincantata proprio come il finale de “La Storia Milanese”, appunto. Milton56