L’ultimo disco di Stephens, molto differente da quello che si è ascoltato a Ferrara
C’è stato un tempo in cui i sassofonisti erano i portabandiera dell’evoluzione jazzistica. Negli ultimi anni, invece, il vessillo dell’innovazione sembra esser passato nelle mani dei trombettisti: molti di loro sembrano emergere sempre più spesso come figure guida, non solo per quanto concerne l’originalità strumentale, ma anche sotto il profilo della conduzione dei gruppi che ruotano intorno a loro. Viceversa le ultime leve di uomini del sax appaiono confinati ad una zona della ribalta al confine della penombra. Che su di loro incombano ancora modelli troppo grandi per esser consegnati alla storia e voltare pagina? O forse dal nostro angolo provinciale ci sfuggono fermenti e figure viceversa ben vitali sulla scena statunitense?
Ben vengano dunque il solito Jazz Club Ferrara in associazione con il fluviale festival emiliano Crossroads che ci hanno fatto meglio conoscere in veste di leader il tenorista Dayna Stephens, per di più accompagnato da una band veramente di gran classe e con la quale il leader intrattiene relazioni dirette ed indirette di lungo corso: Aaron Parks al piano, Ben Street al basso ed Jeff Ballard alla batteria. A parte qualche circoscritto ricorso di Stephens all’EWI (una sorta di strumento ad ancia digitale che offre ampie possibilità di elaborazione timbrica ed armonica), la strumentazione della band è quanto di più classicamente acustico si possa immaginare: un elemento di distinzione, di questi tempi….
Dayna è un debuttante solo per noi: ha da poco compiuto 40 anni, ha alle spalle il consueto, brillante curriculum accademico (Berklee seguita dal Thelonious Monk Institute), i suoi esordi professionali datano ai primi anni 2000, e nel 2007 ha debuttato come leader. Sin dagli anni dell’high school, il nostro ha beneficiato della vicinanza come insegnanti di figure come Shorter, Hancock, Scofield, Holland, Blanchard ed altri, sobbarcandosi poi di buon grado una milizia decennale nel gruppo di Kenny Barron, oltre ad un percorso umano e musicale che lo ha visto spostarsi dalla nativa California e dalla Bay Area di S.Francisco a quell’Atene artistica che è New York. La discografia a suo nome non è molto fitta, ma dà la netta impressione di esser attentamente meditata, soprattutto per quanto concerne la scelta dei partner: nei dischi a sua firma vediamo comparire Walter Smith III, Eric Harland, Julian Lage e soprattutto Brad Meldhau (molto ammirato da Stephens come compositore) ed i suoi fidi compagni Larry Grenadier (uno dei bassisti più completi ed autorevoli in circolazione) e Jeff Ballard. Anche il piano di Aaron Parks ricorre spesso nelle registrazioni di Dayna, e pour cause, come si dirà poi.
I due set ferraresi hanno confermato l’immagine del solista Stephens che ci veniva dalle registrazioni sin qui disponibili: un sax tenore immediatamente riconoscibile per un suono morbido e molto curato che ben si accompagna ad un fraseggio disteso perlopiù su tempi medi e rilassati: la linearità del suo discorso solistico, alieno da contrasti dinamici troppo marcati, talvolta sconfina in una laconica frammentarietà. L’EWI è saggiamente utilizzato in pezzi di atmosfera, come quello dedicato al JFK Airport (“un posto in cui trascorriamo molto tempo”, osserva con ironia Dayna), un ‘non luogo’ la cui anonima solitudine è dipinta con malinconico lirismo e con pochi tratti di acquerello cangiante: lo strumento digitale viene sobriamente sfruttato per la sue peculiarità in termini duttilità timbrica e la capacità di generare più linee sonore contemporanee.
Tutt’altro il discorso sul leader e sull’organico che lo accompagna. Mentre i gruppi radunati da Stephens in occasione delle sue sessioni in studio risultavano caratterizzati da una grande omogeneità con la vena e la voce del leader, la brillante band salita sul palco del Torrione andava sostanzialmente in direzione opposta.
Aaron Parks, ne sentiremo parlare molto…..
In particolare, il piano di Aaron Parks – vecchio e sperimentato compagno di strada di Dayna – è brillante e contrastato, e raggiunge spesso momenti molto vibranti ed intensi: in una parola, il controcanto ideale al tono pacato e spesso sommesso del leader. Il quale ha voluto sottolineare espressamente il notevole contributo di Parks al ‘book’ del gruppo (“questo brano che abbiamo suonato lo ha composto Aaron…. a 15 anni”). Oltre a rappresentare il perno di questa band di gran classe, il modernissimo pianismo incisivo e dinamico di Parks andrà attentamente ascoltato a sé stante alla prima favorevole occasione.
Ballard e Street: sottigliezza e potenza
A rafforzare ulteriormente la tensione dialettica interna che è la più vistosa caratteristica di questo bel gruppo giunge anche il drumming mobile e sottile di Ballard giocato più sui piatti, che su più contenuti accenti sui tamburi, ma capace di progressioni verso occasionali esplosioni di energia. A far da pietra angolare a questa dinamica costruzione si aggiunge anche il basso massiccio ed irruente di Ben Street cui sono riservate frequenti sortite solistiche.
Il bello ed intenso concerto si è concluso con l’aleggiare in platea di un interrogativo sospeso: quello sul notissimo standard trasfigurato da profonde rielaborazioni strutturali e reso con meditativo distacco e toni soffusi che Dayna ed i suoi ci hanno regalato come bis di commiato. Laboriosi confronti e ricerche hanno alla fine portato a concludere che si trattasse di una personalissima versione di ‘Body and Soul’. C’è solo da sperare che questo volto a suo modo sorprendente di Stephens venga documentato discograficamente, scombinando quella che già sembrava una fisionomia assestata.
A questo punto, il pubblico attento ed alquanto competente che stipava completamente il Torrione ha lentamente cominciato a defluire nella notte, portando con sé l’emozione di una scoperta (merce rara di questi tempi): per quanto riguarda gli organizzatori, un’altra scommessa coraggiosa è stata premiata. Milton56
Una recentissima clip del quartetto di Dayna Stephens nella formazione presentata a Ferrara