Il giovane ‘Mr.Beautiful’
‘Mr.Beautiful’, è il soprannome che fu attribuito dalla comunità jazzistica newyorkese – ancora viva e coesa alla fine degli anni ’60 – ad un giovane pianista agli esordi, che anche al di fuori del palco e della musica spiccava per naturale, innata eleganza. Lo notano e se lo accaparrano leaders del livello di Art Blakey (un autentico rabdomante del talento), Sonny Rollins, Joe Henderson, Freddie Hubbard (ben 6 anni di milizia comune), per tacere di numerose altre collaborazioni più transitorie. Ma ancora più significativo è il fatto che lo abbiano fortemente voluto al loro fianco due grandi musicisti nel momento del loro ritorno sulla grande scena americana dopo lunghi periodi bui e difficili: Dexter Gordon (1976-78) ed Art Pepper (1979-82). Le radiose ‘indian summer’ che illuminarono l’ultima fase della carriera di entrambi devono molto al pianismo di Cables, per cui a quanto sembra letteralmente stravedeva l’ultimo Art Pepper. Ma a questo smagliante palmares di ‘eminenza grigia’ di formazioni altrui, il nostro ha sin dagli esordi affiancato anche una nutrita produzione da leader, generalmente di trii (scelta molto significativa, come vedremo poi): la sua discografia è vasta, abbondantemente ‘stellata’ dalle più note guide discografiche e distribuita su di un vasto parterre di etichette americane, giapponesi ed europee, tutte caratterizzate anche loro da un tratto di discreta distinzione. E’ questo il caso della HighNote, in cui da ultimo Cables sembra aver messo su casa registrando frequentemente con dei partner sempre di gran classe come i precedenti, ma con cui il nostro ha sviluppato una particolare empatia: il bassista Essiet Essiet ed il sofisticato Victor Lewis alla batteria (anche bella ‘penna’, come dimostra ad abundantiam il recente cd dedicatogli nella serie Jazz Now ricavata dal bel catalogo Red Records).
Una delle tante perle della giapponese DJW, uno scrigno ormai irraggiungibile, purtroppo
Noi ‘ultimi mohicani’ che ancora ascoltiamo jazz in Italia siamo stati beneficati da suoi ritorni pressocchè regolari: a Bollate (al cui piccolo festival Cables è particolarmente affezionato sin dal suo nascere) gli hanno addirittura fatto firmare l’albo municipale delle celebrità in visita al Comune. Anche a Ferrara non si scherza, a giudicare da un Torrione ancora una volta stipato sino all’ultimo centimetro. Non è un caso che George abbia mobilitato per questo ritorno italiano compagni di strada sperimentatissimi come il già citato Victor Lewis alla batteria, il nostro Piero Odorici ai sax tenore e soprano; in luogo di Essiet Essiet, al basso sedeva Darryl Hall, un ‘emigrè’ da molti anni di stanza in Francia dopo un’intensa stagione newyorkese, che vanta un’impressionante serie di collaborazioni, tra cui spiccano significativamente quelle con altri pianisti di forte personalità come Geri Allen, Mulgrew Miller, Robert Glasper, Cedar Walton, oltre ad avere consistenti trascorsi con il nostro Odorici. L’attenzione alla coesione di gruppo come si vede è alta, non si scende a quei compromessi che talvolta caratterizzano le tournee europee anche di grandi musicisti americani.
Ma questa non è una reentreè come le altre: come ha potuto vedere il pubblico del Torrione, la vita non ha risparmiato all’uomo Cables prove veramente dure, peraltro fronteggiate con tenacia e determinazione. Ed il musicista?
Una Summa del Modern Jazz
Come qualche autentico fedelissimo ricorderà, per me il pianismo di Cables riflette in modo esemplare il canone più aggiornato del jazz moderno, il suo bel ‘The George Cables Songbook” è una vera summa a riguardo. Il suo stile si caratterizza per la capacità di sfruttare tutta la tastiera con grandi contrasti di timbri e dinamiche, in evidente dissonanza con l’odierna tendenza ad un piatto monocromatismo. Il pianismo di Cables ha una spiccata dimensione ‘orchestrale’, che risalta particolarmente in organici sottili come quello del trio. A questa ampiezza di respiro si affianca un grande senso melodico, grazie al quale Cables in qualche modo prende per mano l’ascoltatore con ampie e nitide esposizioni iniziali dei temi, preludio ad improvvisazioni che rivelano una grande capacità di ‘cesellare’ il materiale, senza peraltro cadere in ridondanti barocchismi. La evidente vena lirica non esclude però frequenti sortite in ambiti di maggiore aggressività ritmica: anzi, proprio a questo riguardo mi è sembrato di cogliere degli accenti nuovi anche rispetto al più recente passato, con un fraseggio più nervoso e contrastato, un suono più tagliente con colori più netti e scuri rispetto all’ampia palette ricca di nuances che per esempio caratterizza il citato “Songbook’ del 2016. Con l’elegante understatement tipico di chi non ha nessun bisogno di ‘accreditarsi’ in alcun modo, il nostro ha dedicato l’intero primo set a musiche di altri: “Lullaby” e “Speak No Evil” di Shorter, un McCoy Tyner i cui aerei accordi risuonano spesso nella musica di Cables, un ‘Tiger Rag’ abbordato angolosamente ed tempo frenetico, che si scioglie gradatamente nell’improvvisazione. Ci sarebbe piaciuto ascoltare anche qualcosa di Victor Lewis, ma sarà per un’altra volta.
A proposito, questa autentica lezione magistrale di piano jazz moderno non sarebbe potuta riuscire così impeccabilmente dinamica senza il febbrile e nervoso beat di Lewis, che ha messo in campo un repertorio di finezze tecniche che lo hanno reso di fatto un contitolare di pieno diritto della serata. Capisco anche le ragioni di tanti batteristi di oggi che per coerenza con i più aspri contesti sonori in cui sono inseriti scelgono un drumming scabro e duro, ma sentir rivivere la misura ed il controllo del suono finissimi che furono dei Max Roach, dei Billy Higgins e degli Ed Blackwell a me provoca ancora un brivido lungo la schiena. E sorvoliamo sul formidabile solo a mani nude sui tamburi, sfruttando le minime sfumature di cui erano capaci le pelli…
Nel secondo set Cables ha finalmente messo mano al suo ‘songbook’, ben compendiato nel già citato CD. E qui la sensazione di un sottile, ma profondo mutamento di registro si è fatta ancor più percepibile: i materiali sono gli stesssi, ma l’approccio è diverso, si direbbe più meditativo e meno cantabile. Una ‘Travelling Laady’ è suonata più asciutta e tesa che su disco, un ‘Farewell Mullgrew (Miller)’, un omaggio tutt’altro che rituale, è apparso particolarmente intenso con colori blues ancora più scuri e brillanti. Il contributo di Piero Odorici (a mio avviso più personale ed intenso al sax tenore rispetto al soprano) e del morbido basso di Darryl Hall (protagonista con Cables di un bel duetto su ‘Stella by Starlight’) ha reso molto coinvolgente la resa degli originals, conclusasi però con il tocco di ironica souplesse di ‘Baby Steps’, ovviamente ispirata con insolita leggerezza ai ‘Giants Steps’ coltraniani.
Sì, decisamente George è ancora ‘The Beautiful’, per nostra fortuna. Milton56
La stessa band di Ferrara, qualche anno fa, in un sentito omaggio allo scomparso Mulgrew Miller
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