Quando i giganti camminavano sulla terra

Interessante intervista di Marco Buttafuoco ad Enrico Rava su Giornale dello spettacolo. Il trombettista si conferma persona di ampli interessi, colto e dallo sguardo profondo. I suoi giudizi, a prescindere dall’ambito, sono sempre intriganti, e, anche se la valutazione della scena jazzistica americana mi pare poco generosa, quello che ne esce è il ritratto di un signore ormai ottantenne lucido e penetrante.

Cavaliere, il primo disco di jazz fu inciso poco più di un secolo fa, centodue anni fa per l’esattezza. Come giudica il panorama attuale della musica di derivazione afroamericana?
In termini di pubblico, soprattutto in Europa (molto meno negli Usa) la situazione è confortante. Devo però dire che non vedo grandi novità all’orizzonte. Se oggi avessi quindici anni e mi guardassi attorno per iniziare una nuova avventura musicale, il jazz, soprattutto quello americano, non mi creerebbe entusiasmi particolari. Mi orienterei sul rock, o sul rap. La scena jazzistica, newyorkese, faro abituale, non è molto appassionante. Molti giovani “sperimentatori” (Steve Lehman, per fare un esempio) propongono una musica quasi del tutto scritta, nella quale l’improvvisazione è un elemento secondario. Tanto vale ascoltare Schoenberg, allora. Certo ci sono ottimi giovani musicisti in attività; l’israeliano Avishai Cohen, Ambrose Akinmusire entrambi trombettisti. La musica più innovativa la suona tuttavia un signore di ottant’anni, tale Wayne Shorter, con il suo quartetto. E pensare che una cinquantina di anni fa, un’epoca storica in cui ho vissuto e lavorato, si potevano ascoltare dal vivo Miles Davis, John Coltrane, Duke Ellington, Louis Armstrong, Kenny Dorham, Chet Baker, Bill Evans, Ornette Coleman. Come ha detto qualcuno era l’epoca in cui i giganti camminavano sulla terra. Tutto suonava nuovo. Oggi non è più così. Forse si è chiuso un ciclo. È normale, nella storia. Domani forse qualche giovane porterà un vento di novità. Forse no. Certo, io sono nato musicalmente ascoltando Louis Armstrong e Bix Beiderbecke e mi sono formato su Miles e questa musica non mi entusiasma.

Fonte: https://giornaledellospettacolo.globalist.it/musica/2019/06/17/enrico-rava-i-social-orrendi-luoghi-di-falsa-comunicazione-2043034.html?fbclid=IwAR3rr35YrvOQgn22LBLg2p1m2_XNNg4q0I0hUO-g8kMwac-Sx1jE-byaa_Q

4 Comments

  1. Non frequento molto la scena rap, ma quella del rock attuale, mi sembra di gran lunga messa peggio del mondo jazz, con ristampe vere o copie dei modelli affermati nei decenni precedenti che dominano l’offerta. E poi Dylan che fa il crooner e Springsteen con l’orchestra ….

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  2. lucido e penetrante? sarà, ma io leggo considerazioni di un vecchio spento e rivolto con lo sguardo al passato, oltretutto poco inforrmato, specie sul la scena attuae americana. A quando piuttosto il suo ritiro dalle scene? sarebbe anche ora perchè non si può più sentire.

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  3. L’Entusiasmo presuppone l’ingenuità e lo stupore, che ad ottant’anni non si danno, e direi che sono anzi quasi fuor di luogo. Ragion per cui non ascolterei come un oracolo il buon Enrico, dal quale più che altro ci si attenderebbe una meditata summa di una vita sotto molto aspetti straordinaria. La penna poi non gli pesa, anzi, come dimostra ‘Incontri con musicisti straordinari’, brillante diario in pubblico di cui si vorrebbe un seguito (anche per salvare un bel pezzo di storia orale, preziosa quanto quella dei professionisti). Ma si sa, il nobile e creativo ‘otium’ degli antichi non è granchè apprezzato in un paese dove non si legge più neanche l’orario ferroviario.
    New York come fucina del jazz? Certo non ospita più quella comunità in stretta relazione personale e creativa che Rava ha conosciuto. Al riguardo sono interessanti le osservazioni di Brandon Ross degli Harriet Tubman nell’intervista pubblicata da Musica Jazz di questo mese: in sostanza, il musicista creativo è un ospite nella New York gentrificata plasmata da immobiliaristi e broker, che gli rilasciano una sorta di ‘passi’ per garantirsi un po’ di svago trendy. E’ probabile che il suo ambiente creativo sia da cercare altrove, e forse in molti e diversi altrove. I ‘giganti’? a parte il fatto che spesso si riconoscono solo a decenni dalla loro scomparsa, ci sono epoche che ne traboccano – come quella che ha avuto la fortuna di vivere Rava – ed altre più confuse e labirintiche, dove il talento e la creatività rifluiscono in molti rivoli, anzichè in un grande fiume dal tracciato sicuro e definito. Ed è forse quello che accade ora, e non solo nel jazz. Milton56

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  4. L’intervista a Enrico Rava è, purtroppo, un sorprendente e malinconico non sequitur, in cui il trombettista, generoso dispensatore di un ego piuttosto esacerbato, distilla perle di malinconica banalità. Così come, per sorprendente fragilità culturale, aveva in passato scoperto Michael Jackson (cui ha dedicato forse il lavoro meno meritevole della sua carriera) con qualche decade di ritardo, pur di giustificare il suo umano e comprensibile aggrapparsi al palcoscenico esalta l’ottantenne Wayne Shorter, genio che non ha certo bisogno di tale viatico. Sorprendentemente, Rava si mostra poco au courant e opera un’analisi superficiale e conservatrice. Peccato, perché un artista così intelligente e sensibile, che ha avuto un’indubbia statura, che è stato (e rimane) il migliore e più personale improvvisatore nella storia del jazz in Italia, che è stato sicuramente un protagonista della musica improvvisata internazionale grazie a una cifra stilistica originale e inconfondibilmente italiana, non meritava di fare torto a sé stesso con una serie di considerazioni così vaghe e culturalmente povere.

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