Conti che non tornano : dubbi e tormenti di un ascoltatore di lungo corso.

Agli inizi degli anni novanta del secolo scorso, quando iniziarono a diffondersi massivamente i telefoni cellulari, si mafifestò, parallelamente, un fenomeno cui non eravamo preparati: la proliferazione incontrollata di proposte commerciali (all’inizio erano detti “piani tariffari” ) rivolte agli utenti, attraverso le quali gli operatori si sfidavano a colpi di maketing creativo. Traffico vocale, messaggi, connessione ad internet venivano profilati nelle articolazioni più varie con lo scopo di attrarre clientela. Ricordo che i più metodici e confidenti nelle opportunità del mercato sfoggiavano tabelline di confronto, fogli excel da aggiornare a ritmo continuo per stanare l’offerta del momento ed azzeccare il cambio di operatore con le condizioni migliori. All’epoca assistevo un pò sgomento, come forse molti altri reduci da un passsato di telefonia fissa in monopolio, a quel fenomeno, che tendevo ad attribuire alla moda momentanea ed all’infatuazione collettiva per il nuovo oggetto, confidando che presto la giungla delle tariffe avrebbe lasciato spazio ad un panorama meno complesso. E’andata come tutti possiamo constatare oggi, ma quel momento storico mi è sovvenuto pensando all’attuale situazione dell’industria discografica, interlocutore con cui ho a che fare, per via di una perseverante passione, da quasi mezzo secolo. Oggi, per quel che concerne il prodotto musicale, tutte le regole di noi attempati appassionati di “dischi”, sembrano essere state sovvertite da un ciclone improvviso, che sta cancellando tutte le certezze del passato per sostituirle con un presente in cui si fatica ad orientarsi, con i supporti storici prima cancellati e poi risorti (gli LP) , quelli subentrati (i cd) che oggi tendono ad essere relegati a rango di antiquariato di scarso valore, ed il magma imperante dei supporti “liquidi” che, come il blob televisivo, sta penetrando nei gusti e nelle abitudini di un pubblico sempre più numeroso. Faccio non poca fatica ad orientarmi, quando devo scegliere cosa comprare e cosa ascoltare, in termini di formato, e per cercare un pò di chiarezza ho deciso di stilare una succinta lista di fenomeni che mi risultano, allo stato, pittosto oscuri o quantomeno fonte di dubbi, nella speranza che le parole depositate su un foglio bianco (sebbene virtuale) e, magari il contributo di qualche lettore appassionato come me, aiutino a trovare risposte.

  1. Dischi o Vinile . Ho letto da qualche parte che noi vecchi consumatori di dischi non ci saremmo mai, ai tempi, sognati di chiamarli vinili. E’ vero, ma forse il motivo è che sono proprio cose diverse. I dischi erano quelli che popolavano negozi grandi e piccoli di musica e che, in epoca adolescenziale, compravamo, dopo approfondita analisi, nell’ordine di due tre al mese, ad un prezzo che, intorno a metà anni ottanta, sfiorava le 15.000 lire. Il vinile, che oggi è tornato in splendida livrea a costituire piccoli nuclei di scaffali nelle catene di musica e libri, spesso si traveste da disco, ricalcando contenuti ed immagini dell’epoca, ma in realtà sembra destinato ad altro uso, poichè venduto a prezzi che non trovano giustificazione se non nel tentativo di speculare sul fenomeno di ritorno, facendo del “vinile” un ambìto oggetto da esposizione salottiera. Due fatti di cronaca recenti. Ho trovato in un punto vendita decine di vinili rock e pop anni settanta/ ottanta (due esempi : “Automobili” di Lucio Dalla (1977) e “London Calling” dei Clash (1979)) proposti in ristampe a prezzi medi fra i 25 ed i 30 euro. Ricevo quotidianamente proposte di negozi che orgogliosamente presentano ristampe di storici Lp jazz in edizione audiofile (qualunque cosa significhi) a prezzi oscillanti fra i 50 ed i 60 euro. Il paradosso dei vinili che riproducono opere più recenti è poi che spesso si tratta di riversamenti da matrice digitale, A questo punto fatico a comprendere chi siano gli attuali acquirenti di vinile, i quali indubbiamente, devono esistere, se l’industria è tornata a produrre questi oggetti. Ultima chicca il ritorno , sebbene per ora in sordina, delle audio cassette originali. Prezzo? Come il vinile.
  2. Povero, vecchio cd. La mia conversione pressochè totale al cd risale al momento in cui, stufo dei rumori, dei salti e degli scricchiolii del delicato LP, salutai con gioia l’arrivo di un supporto tendenzialmente eterno ed esente da difetti di riproduzione come il compact disc. Sono consapevole che questi due aggettivi potrebbero riversare, nel caso migliore, tonnellate di proteste dei sostenitori del “partito vinile”, ma a questo punto, con gli scaffali pieni dei rilucenti dischetti, mi sento quasi automaticamente iscritto all’associazione opposta. Certo che anche qui i conti non tornano: un cd nuovo nel 1985 , più o meno anno della sua comparsa, costava 25.000 lire, oggi il prezzo medio è di 20 euro. Se però decidete di rivenderlo ad un negozio o bancarella dell’usato, vi accorgerete che la valutazione oscilla fra 1 e 2,5 euro, per un prezzo di vendita dell’usato che varia da 5 a 10 euro. Gli affari sono alla porta.
  3. Streamer o non streamer? Qui non sono un esperto, ma ho da tempo registrato l’esistenza di questi lettori di rete, in grado di riprodurre files musicali nei vari formati, attingendo a supporti esterni (hard disk, computer ecc. ) o direttamente dalla rete. Il prezzo è piuttosto elevato (dai 400 euro in su) ed il vantaggio, almeno sulla carta, sarebbe quello di potere fruire dei contenuti musicali che affollano i nostri supporti informatici o gli immensi archivi dei programmi musicali ai quali è possibile abbonarsi (da spotify ai più elitari audible o tidal) collegando l’apparecchio al sistema hi fi casalingo. Non ho per ora provato, ma sarei curioso, pur consapevole del diverso livello qualitativo dei DAC, di testare la differenza fra uno streamer e la scatoletta che, collegata ai due spinotti di ingresso rca del mio amplificatore, riceve il segnale bluetooth dal cellulare e lo invia all’impianto casalingo. In generale, comunque, l’idea di dematerializzare l’intera raccolta musicale affidandomi alle praterie infinite dei servizi musicali ed alla connessione di rete non mi affascina più di tanto.
  4. Masterizzatori e rippatori . Per anni ho pensato alla masterizzazione dei files musicali di buona qualità (Flac/Wav, ecc. ) come al modo migliore per ascoltare dall’impianto hi fi domestico. Svariate prove comparative fra cd originali e masterizzati, fra l’altro, mi hanno spesso portato a considerare pressochè equivalenti i due prodotti (anche qui potrei essere tacciato di eresia, ma questo riportano le mie orecchie). Di recente ho fatto una scoperta che ha dello svonvolgente: c’è chi, possedendo i cd originali, li trasforma in files per ascoltarli con lettori di rete o similari dispositivi. L’operazione consiste nel “rippare” il contenuto dei cd con appositi softwares, per ottenere i files. Con tutto il rispetto per i rippatori, non riesco a darmi una spiegazione. E, come si sarà capito, non è l’unico interrogativo che, in questo campo, agita i miei pensieri.

1 Comments

  1. Analisi interessante. Visto nell’ottica del jazz, il caos descritto è molto grave. Il jazz vive in simbiosi con il disco, è il suo ‘testo’, è la sua necessaria memoria. Con gli Lp 30/40 euro il jazz è morto: non faccio impalpabili questioni tecniche, da buon materialista dico che con gli Lp a 30.000/40.000 lire nessuno di noi sarebbe diventato un jazzofilo. Figurarsi un giovane di oggi, ancora precario allo spuntare dei capelli grigi. Nessuna etichetta indipendente di jazz può vivere con le minime tirature degli Lp ‘audiofili” (scusate, ma qui mi scappa da ridere..), nè può destreggiarsi con una pluralità di formati: siamo già sulla strada del declino di una produzione discografica professionale e duratura. Le autoproduzioni? Bah, la tomba di tanta musica che scomparirà con loro. Anzi, diventerà carne da macello ad un dollaro al Gigabyte per l’odiato streaming. Un mondo strutturalmente votato al monopolio od oligopolio strettissimo, pieno di barriere tecnologiche manovrate ad arte in funzione dei medesimi. Un universo in cui già si districa a stento chi conosce bene questa musica, figuriamoci i neofiti. Senza contare che stiamo arrivando al redde rationem: gli utenti sono ormai dipendenti, colossi che dalla nascita hanno accumulato solo perdite dovranno presentare il conto, con aumenti sostanziali degli abbonamenti o cedendo l’affare in blocco alle grandi corporation del disco. Sosteniamo le ultime label indipendenti, sono l’ultima spiaggia di questa musica. Milton56

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