Letture per un pomeriggio d’estate

Cercate un posto all’ombra, però……

L’ondata di caldo torrido che continua ad imperversare ha almeno un lato positivo per coloro che si possono dedicare ad un periodo di riposo: dovendo osservare un coprifuoco forzato sino al tardo pomeriggio, il momento è propizio per dedicarsi a letture corpose, accantonate in precedenza con le scuse più varie.
Sotto questo profilo, noi jazzofili siamo fortunati: proprio in queste settimane alcuni editori dell’intrepido e sparuto manipolo che si ostina a dedicarsi alla letteratura jazzistica hanno mandato in libreria due titoli veramente importanti e che ben si attagliano al momento climatico di cui si è detto.
Premessa di metodo: non ho portato a termine la lettura di nessuno dei due libri, ma, come mio solito, mi sono concesso diversi ‘assaggi’ per testarne interesse e consistenza: i corposi volumi sono ora virtualmente alquanto ‘sbocconcellati’, e, considerata la lunga serie di letture jazzistiche che ho alle spalle, già questo si può considerare un bel complimento agli editori per le scelte compiute.

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Un libro affascinante come un romanzo picaresco

Cominciamo con la raffinata Quodlibet di Macerata, che dopo ‘Grande Musica Nera’ di Steinbeck (completissima ‘biografia’ dell’Art Ensemble of Chicago) deve aver preso gusto al filone jazzistico (che il patrono degli editori li protegga….). Dopo il già intrigante volume di Steinbeck, infatti, Quodlibet rilancia audacemente con un autentico, piccolo scoop editoriale: la prima edizione italiana di “Mister Jelly Roll – Vita, fortune e disavventure di Jelly Roll Morton, creolo di New Orleans, ‘Inventore del Jazz’”, libro pubblicato negli Stati Uniti nel 1950 dal famoso etnomusicologo Alan Lomax. In realtà il concepimento di questa singolare opera risale addirittura al 1938, quando Lomax si imbattè in un Jelly Roll Morton ormai dimenticato da molti anni ed incamminato sulla via di un mesto ed oscuro tramonto. Lomax si rese conto dell’eccezionalità della testimonianza che avrebbe potuto raccogliere, ed invitò Morton alla Library of Congress per la registrazione di un’intervista, possibilmente inframezzata da qualche brano al piano. Qualche settimana dopo Morton stava ancora parlando e suonando….ci vorranno molti anni di approfondimenti e riflessioni prima che questo torrenziale materiale entrasse nell’alveo di un libro, grazie anche ad altre ricerche condotte da Lomax nel milieu di Morton dopo la sua morte. Se dovessi definire in due parole le 364 pagine di cui stiamo parlando, parlerei di un gigantesco, coloratissimo affresco di un’epoca che già nel 1938 trascolorava nel mito. E, notare bene, il pennello era nelle mani di uno dei più grandi protagonisti di questa sorta di Età dell’Oro della musica americana. Una forte raccomandazione: il libro è introdotto da due corposi saggi di Stefano Zenni e di Claudio Sessa (tra l’altro curatore della neonata collana… ad maiora!, ma l’ottimo Claudio non ha bisogno certo di questi incoraggiamenti). Non siate tentati di saltarli: ‘Mister Jelly Roll..’ è un libro dalla genesi e dalla struttura complessa, direi ‘a matrioska’. Al fondo è il resumè della vita di un autentico gigante della musica americana, con tutte le possibile velature dovute alla rievocazione di un lontano passato di grandi successi. Ma questa narrazione in prima persona è incastonata però in quella di un’altra forte personalità, quella di Lomax, che aveva idee molto precise sulla storia e sulle evoluzioni della popular music statunitense, e che in principio muoveva da una posizione di aspra polemica nei confronti del jazz dell’Era Swing, da lui ritenuto un colossale diversivo concepito dall’industria discografica di Tin Pan Alley per cancellare il genuino retaggio dell’autentica musica popolare americana. Il progressivo addentrarsi nel mondo di Morton indusse però in Lomax una graduale fascinazione per l’uomo Jelly Roll, di cui forse è stata alla fine restituita un’immagine ‘larger than life’, che ha attirato sul musicista creolo accuse di megalomania ed egocentrismo forse ingenerose ed esagerate (e probabilmente da imputare più al ritratto a tutto tondo e quasi eroico tracciato da Lomax). Un’ultima avvertenza e direi anche una rassicurazione: “Mister Jelly Roll” non è un saggio di storia della musica o, peggio ancora, di critica. E’ invece più che altro una vivacissima ricostruzione dell’ambiente sociale e culturale che ha nutrito il jazz ai suoi primordi, tanto viva e pulsante da sfiorare spesso il romanzo picaresco. Una lettura pressocchè obbligatoria per ogni vero appassionato di jazz, oltre che piacevole e coinvolgente per tutti.

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Un approccio per noi inedito, che richiede un qualche adattamento

Nate Chinen “La Musica del Cambiamento – Jazz per il nuovo Millennio” – Il Saggiatore, pagg.312, €.32,00 (ohibò, ma ci sono i consueti sconti su edizione a stampa, ed anche la più economica edizione digitale, non so però quanto pratica per un’opera che ha tendenzialmente una vocazione di consultazione). Eh sì, cari, è lo stesso libro su cui ieri si è soffermato il nostro Rob53 con varie osservazioni critiche: considerate queste righe come quella che in medicina si chiama ‘second opinion’. Lasciamo in coda le questioni attinenti lo stile e la traduzione, per soffermarci subito su natura e contenuto di questo libro. Nate Chinen è una figura di primo piano del giornalismo musicale statunitense, ha collaborato anche a quella sorta di Bibbia dell’intellighentsia americana che è il ‘New York Times’. Non a caso ho usato il termine ‘giornalismo’, anziché ‘critica’: la posizione di Chinen mi sembra più quella di un cronista con il privilegio dell’accesso al retropalco di una musica in una fase di tumultuosa ed ancora controversa evoluzione, che non quella dell’analista intento a tracciare un quadro ormai assestato e distaccato con gli asettici strumenti chirurgici della critica. E direi che proprio questa peculiarità di angolo visuale costituisce motivo del massimo interesse per il lettore italiano che ormai da molto tempo può contare solo sullo sguardo distante ed esterno del critico, circostanza aggravata dal progressivo allargarsi del gap culturale e di informazione tra gli ambienti musicali più vitali e creativi degli States e la vecchia Europa (per non parlare della sempre più isolata e periferica Italia). Chinen prende una lunghissima rincorsa partendo dai primi anni ’80 per narrarci la svolta del jazz ‘millennial’, quello cioè fiorito a cavallo tra gli anni ’90 ed i primi 2000, un quadro complesso e non lineare all’interno del quale continuiamo a muoversi ancora oggi (o che quantomeno ha determinato l’attuale scena musicale): con questo focus si comincia a colmare un’evidente e totale lacuna della scarna letteratura jazzistica in italiano, in cui mancava sinora una visione d’insieme – per quanto abbozzata ed ‘in progress’ – degli ultimi, intricati quaranta anni di jazz. La narrazione è strutturata facendo periodicamente convergere vari sentieri sparsi su singole figure ritenute cruciali e catalizzatrici di una certa fase evolutiva della musica afroamericana: si parte da Wynton Marsalis, le cui controverse prese di posizione vengono inquadrate nella critica congiuntura vissuta dal jazz a metà degli anni ’70, per poi rivolgersi a Brad Meldhau (per il quale risuonano chiare affinità elettive di Chinen), ed a seguire Dave Holland, l’ultimo Shorter, Jason Moran, Muhal Richard Abrams, sino a giungere agli estremi contemporanei come Robert Glasper, Mary Halvorson ed una folla di altri. Sempre per non smentire l’inclinazione a non indietreggiare di fronte alla mischia, si arriva sino al discusso Kamasi Washington ed addirittura alla ‘Black South London’, sulla quale vi siamo sempre debitori di qualche nota più personale ed approfondita. Periodicamente si ripropone la ben nota querelle sulla ‘(quasi) morte del jazz’, della sua ‘resurrezione’ a più riprese, tematiche tutte affrontate sempre dal punto di vista degli artisti di punta nei vari momenti. E’ costante ed acuta l’attenzione di Chinen all’ambiente sociale ed urbano da cui emergono i musicisti via via ritratti, e la cura con cui vengono dipanate e seguite le filiere generazionali da cui discendono e che a loro volta generano. Lo sguardo è acuto ed accurato anche su quella che ironicamente Chinen ha denominato la ‘Jazz Education Industry’, di cui viene sottolineata soprattutto la capacità – forse involontaria – di farsi incubatrice di comunità musicali e creative di giovani musicisti ancora in formazione, comunità che in altri tempi si formavano solo tra navigati professionisti nell’intensa e logorante vita dei clubs. In questo animato reportage girato ‘con la camera a mano’ è da mettere ovviamente in conto qualche inquadratura un po’ mossa e fuori fuoco, figlia del costante coinvolgimento dell’operatore che gira sempre ‘dentro la scena’, rischiando anche il contagio di una certa enfasi ed autoretorica con cui musicisti in ascesa cercano di aprirsi un loro spazio in una scena anche lì non sempre generosa di occasioni e di ascolto. Questa narrazione ‘in presa diretta’ e fortemente compartecipe del gergo a volte un po’ iniziatico delle nuove leve jazzistiche non ha sostanzialmente omologhi da noi, e quindi sono spiegabili certe vaghezze e sfuocature della traduzione, che non deve esser stata lavoro facile anche per uno specialista di testi di argomento musicale. La mia valutazione di sintesi è che comunque il gioco di un quadro d’insieme di un periodo narrato sinora solo con la frammentarietà e l’estemporaneità del formato giornalistico, nonché la grande mole di notizie e testimonianze di prima mano valgano la candela di qualche passaggio un po’ vago e fumoso: sta al lettore disinvolto e determinato metterli tra parentesi e mantenere la presa su una ricchezza informativa e su una visione di sintesi sostanzialmente inedite alle nostre latitudini, soprattutto perché riferite entrambe a quello che è tuttora il presente musicale che ci sta di fronte. Milton56

2 Comments

  1. Istigato e confortato dalla tua recensione ho scaricato il libro di Chinen e ne ho letto una corposa parte, superando d’un balzo quegli apparenti ostacoli linguistici di traduzione che, in effetti, man mano che scorre il libro sono meno evidenti e comunque del tutto ininfluenti alla narrazione. Concordo su quanto dici, Chinen è qui al suo secondo libro, il primo interamente a nome proprio, ma è una costante miniera di informazioni di prima mano a partire dalle colonne del NYT ed è capace di tenere contemporaneamente più fili in mano e di unirli in tempi ed in modi che inducono il lettore a non mollare l’osso. Mi ero fermato alla prima impressione e mi cospargo il capo di cenere, invece il libro è stimolante e merita una attenta lettura .

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    1. No,no! per carità, niente cenere in testa, le cliniche svizzere specializzate il trapianto di capello se lo fanno pagare al pezzo !! :-). Con l’occasione, faccio un’ammenda anch’io. In Italia qualche anno fa è stata tentata un’operazione editoriale simile a quella di Chinen, eccola : https://www.ilsaggiatore.com/libro/le-eta-del-jazz-i-contemporanei/
      Ancora Claudio Sessa, manco a dirlo, gli fischieranno le orecchie. Il suo interessantissimo libro – molto raccomandato, è uno di quelli che ‘rimangono’ – segue prevedibilmente una prospettiva diversa: quella di una ragionata e sistematica disamina della discografia del jazz degli ultimi decenni, inquadrata per filoni tematici. Una ottima ‘mappa’ per orientarsi nei labirinti dello streaming alla ricerca dei percorsi del passato prossimo che ci hanno condotto sin qui. Milton56

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