Il recente tour italiano del trio EMG, ovvero Peter Erskine, Dado Moroni e Eddie Gomez, ha portato, fra festival e concerti, una ventata di fresca classicità, rivisitando un repertorio che attinge alla storia del jazz con classe impeccabile e voglia di “suonare assieme la musica che ci piace, senza particolari progetti da sviluppare“, come ha ricordato il pianista genovese in apertura dell’esibizione di casa al Gezmataz del Porto Antico, lo scorso luglio. Un progetto, quello del trio, che colloca Moroni sul livello di autentici fuoriclasse della scena contemporanea, già protagonisti di pagine memorabili come quelle a fianco di Bill Evans per Eddie Gomez e nei Weather Report e gli Steps Ahead per Peter Erskine. Accanto a loro, Dado Moroni ha ribadito la sua statura di pianista mainstream di valore internazionale, spaziando, nella scaletta del concerto genovese, fra Fats Waller, Duke Ellington, Billy Strayhorn e Don Grolnick in un ideale, ed ogni sera teoricamente diverso, compendio della propria storia nel jazz. Una carriera quarantennale quella di Moroni, valorizzata da un prolungato soggiorno statunitense negli anni ’90, fruttuoso di collaborazioni con autentici giganti del jazz, da Clark Terry a Johnny Griffin, Freddie Hubbard, Bud Shank, Buddy De Franco, Zoot Sims, Ray Brown, Ron Carter e Kenny Barron, Tom Harrel e molti altri, e culminata nella recente prova con Joe La Barbera ed Eddie Gomez, batteria e basso di alcune delle formazioni del grande Bill Evans, un concerto al Casinò di Sanremo immortalato nel disco “Kind of Bill”, che ha creato le premesse per il nuovo trio EMG.
Partendo da qui abbiamo risolverato una conversazione con Dado Moroni tenuta proprio in occasione della pubblicazione di quel disco, in bilico fra l’attualità e la storia del pianista.
Suonare con la ritmica di “quel” trio è un’impresa da far tremare i polsi. Come l’hai affrontata?
Il disco su Bill Evans è stato rivolto ad omaggiare, più che altro, lo spirito di Bill Evans, quello che lui ha lasciato nei suoi compagni di viaggio che sono ancora in vita, e che, ricostruendo la carriera e la musica di Bill, risultano essenziali alla creazione di quel suono unico che tutti abbiamo imparato a conoscere come il “suono di Bill Evans”. Suonando con Eddie Gomez e Joe La Barbera, ho colto in pieno il loro contributo alla musica, le porte che riuscivano ad aprire a Bill Evans , un musicista fantastico, ma che trovava nella comunanza di questi compagni la dimensione ideale per esprimere la propria creatività. Bill Evans è un musicista che mi accompagna da anni, e che ascolto, a seconda dello spirito del momento, privilegiando determinati dischi, ma è sempre stato una presenza importante.
E fra i tuoi dischi quali preferisci?
Fra i miei dischi quello per pianoforte solista, “Dado solo”, dove ho potuto dare sfogo a tutta la mia creatività, ed ho suonato, in penombra quello che volevo e quando volevo, e poi un altro, “The Cube” con Tom Harrel ed Andrea Dulbecco, Enzo Birilli, Stefano Bagnoli e Riccardo Fioravanti, entrambi usciti per la abeat records di Marco Caccia, in un processo di grande libertà creativa senza vincoli di produzione . Ma anche “A kind of Bill” mi sta molto a cuore. In generale devo dire ci non essere un buon giudice di me stesso, posso solo dire come mi sono sentito, ed in questi casi stavo proprio bene.
Parliamo dei vertici di una lunga storia artistica. Ci vuoi raccontare come è iniziata?
Il jazz l’ho respirato, praticamente, fin dalla nascita, con le collezioni di dischi dei miei genitori e la musica che riempiva le stanze di casa. Agli inizi degli anni sessanta bisogna dire che il jazz era molto più diffuso presso un pubblico ampio rispetto ad oggi, ed affine ai gusti musicali della gente. Ricordo ad esempio Louis Armstrong ospite al Festival Sanremo che cantava con Lara Saint Paul . Era molto più viva l’identità del jazz come musica del popolo, anche da ballare, di quanto accada oggi, con il jazz praticamente scomparso dai mezzi di comunicazione, anche dalla radio che fino a pochi anni fa era un felice baluardo. Questo è un po’ triste, non è un bel segnale.
Fra i dischi che mi hanno più colpito all’inizio non c’erano necessariamente quelli dei pianisti, ricordo ad esempio Ella e Louis Armstrong, o altri cantanti. Il pianoforte è stato semplicemente lo strumento che ho trovato in casa, e mi permetteva di riprodurre i suoni che ascoltavo dai dischi di Art Tatum, Erroll Gardner, ma avrebbe potuto essere qualsiasi altro strumento. Mi colpivano, ad esempio, le facce sulle copertine con gli occhi spalancati come quella di Fats Waller, mi dava l’idea di persone che dovevano divertirsi come dei pazzi, e la musica esprimeva quella sensazione di felicità. Poi vennero i primi rudimenti di pratica, appresi in casa con mia madre, che, avendo un po’ di esperienza con la fisarmonica ed il pianoforte, iniziò a farmi capire cosa fosse ad esempio un accordo maggiore, che equivaleva ad atmosfera gioiosa, o quello minore, che esprimeva tristezza. Dopo un po’ di anni ho conosciuto Flavio Crivelli un pianista, purtroppo scomparso tre anni fa, dalla preparazione tecnica fantastica che era stato allievo di Arturo Benedetti Michelangeli. Crivelli aveva una formazione classica, ma era approdato al jazz spinto dalla voglia di uscire dagli schemi predefiniti dello spartito: era una persona che aveva fatto tante altre cose rispetto alla musica, si era laureato in farmacia, senza però abbandonare la passione per la musica che coltivava esibendosi al Louisiana Jazz Club di Genova. Io lo conobbi tramite mio padre, e lui subito rimase colpito da quel ragazzino di dieci, undici anni che aveva una così grande passione per il jazz, cosa assolutamente anomala per quell’epoca. Crivelli veniva a casa mia tutte le settimane a darmi lezioni, e questo aprì enormemente i miei orizzonti musicali che fino ad allora erano confinati a Gardner, Art Tatum , Oscar Peterson , Fats Waller e pochi altri: lui iniziò a farmi conoscere altri musicisti, come Hancock, Bud Powell, o Bill Evans che per me erano novità. Da lì partì tutta la mia storia di musicista.
Una storia fittissima di collaborazioni con musicisti provenienti dai quattro angoli del pianeta e che ti ha permesso di entrare in contatto con culture, anche personali, molto diverse.
Da un punto di vista strettamente musicale, un gruppo che sta insieme da tanto tempo, come capita spesso nel rock, dove alcune realtà sembrano resistere oltre ogni limite, per effetto dei meccanismi dell’immagine e del mercato, anche se magari i membri si odiano, offre il vantaggio di consolidare un sound che rimane negli anni. Nel jazz è capitato abbastanza di rado che un gruppo rimanesse stabile nel tempo, mi viene in mente l’orchestra di Ellington, almeno per alcuni membri, o quella di Count Basie. Lo scambio frequente che caratterizza il jazz, la sua origine nella tradizione orale, la sua identità di genere basato sulla narrazione reciproca, spinge a queste dinamiche ed al passaggio del testimone: nonostante abbia partner ed amici ai quali sono legatissimo sia musicalmente che umanamente, a me verrebbero i brividi a suonare sempre con gli stessi musicisti. Il gruppo fisso è bello che ci sia e si riunisca con una certa regolarità, ma poi lo scambio è fondamentale, ed anche fra generazioni diverse, come insegna la storia del jazz, che è piena di collaborazioni fra musicisti di età diverse, come insegnano Miles Davis, Art Blakey o Dizzy Gillespie, che spesso suonavano con giovani musicisti con i quali era scoccata la famosa scintilla, e rispetto ai quali assumevano il ruolo di accompagnatori per proseguire la tradizione. Al giorno d’oggi sembra esserci, per motivi di marketing, più compartimentazione fra le generazioni, per cui i giovani devono solo suonare con i giovani e chi è più vecchio solo con chi ha la stessa età; è un fenomeno nato nell’era post Marsalis, con i cosiddetti “young lions” che mostra i suoi limiti proprio nella carenza dello scambio di esperienze. Però mi chiedo: a parte alcuni casi eccezionali, cosa possono trasmettersi fra loro musicisti di vent’anni senza il confronto con chi li ha preceduti?
Lo scambio di esperienze nei confronti delle giovani generazioni è un tema che mi tocca da vicino, e che metto in pratica nella didattica, insegnando al Conservatorio a giovani che hanno voglia di ascoltare quello che ho da raccontargli: è un lavoro, ma anche una missione rivolta a tramandare a loro le mie conoscenze. In questo caso seguo un approccio molto diretto e forse poco ortodosso, spiegando subito che le mie lezioni non sono rivolte a ripetere quello che è già ampiamente scritto sui libri, ma a raccontare storie tratte dall’esperienza, dalla strada, o tratte dal palco: come riuscire a suonare con un pianoforte distrutto, o senza pedali, come combattere l’umidità che fa saltare il ponte del basso, come usare lo scotch o un pezzo di carta per bloccare la corda stonata di un pianoforte in un concerto in Africa, tutti quei trucchi che solo chi ha una grande esperienza può conoscere. Si tratta, comunque, di un percorso a duplice binario, perché anch’io apprendo tantissimo da loro, che magari hanno più tempo per l’ascolto e l’esplorazione di quello che succede nel mondo della musica. Spesso accade che arrivi uno studente e mi dica: “maestro senta un po’ questo gruppo nuovo” e magari mi fa scoprire una realtà fantastica che io difficilmente avrei potuto conoscere. Quindi lo scambio, sia di conoscenze che sul piano della partnership musicale è sempre una cosa positiva, che fa solo bene alla musica.
Come giudichi le contaminazioni e le trasformazioni che interessano il linguaggio del jazz oggi?
Onestamente, di recente non ho sentito nulla che mi abbia fatto sobbalzare sulla sedia per la sua novità o la diversità. Io considero il jazz come uno dei padri di tanti generi che sono venuti dopo e non sono preoccupato dalle problematiche connesse all’evoluzione del genere tramite l’integrazione con altre culture e componenti: ad esempio il jazz fuso con l’hip hop mi fa un po’ ridere, perché vedo l’hip hop come un derivato del funk che proviene a sua volta dal jazz. L’importante è che si sappia riconoscere il bello, fatto con passione ed onestà, senza porsi particolari problemi di linguaggio. E’ come con la lingua italiana: se fossimo ossessionati dalla necessità di innovare, dopo Cesare Pavese non dovrebbe scrivere più nessuno. Penso invece che l’importante non sia tanto il linguaggio che si usa, ma quello che si ha da dire, da trasmettere. Senz’altro ci sono tanti musicisti eccezionali fra i giovani in circolazione, però, mi capita, magari, di ascoltare i Funkadelics e, a parte alcuni suoni oggi un po’ sorpassati, trovo quella musica più fresca di molta che si produce adesso. George Clinton andava a vedere Coltrane dal vivo, ha conosciuto Hendrix, e sicuramente quelle sono esperienze che lasciano un segno. Il jazz è già una contaminazione, musica caraibica, musica ebraica di origine europea, elementi spagnoli ed italiani, melodia anglosassone, con la preponderanza del linguaggio africano: poteva solo nascere a New Orleans, il posto dove si radunavano tante culture ed esperienze diverse. Nella mia visione è preferibile il bello che il nuovo a tutti i costi.