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«Al di sopra di tutto intervengono la mentalità e l’approccio jazzistico delle riduzioni e degli arrangiamenti di Fresu e di Bonaventura.» Fresu & Di Bonaventura «Altissima luce: Laudario di Cortona»
Fonte: https://www.musicajazz.it/altissima-luce-laudario-di-cortona-fresu-di-bonaventura/
Di operazioni di questo tipo, effettuate sia su musica antica che su musica classica più vicina temporalmente e per finire su canzoni moderne o su album famosi di rock’n roll, è piena la discografia, e soprattutto sono piene le scalette dei vari festival. Il fenomeno in sé può produrre risultati interessanti quanto provocare perplessità. Spesso, soprattutto nell’utilizzo del materiale canzonettistico italiano, si finisce per rimpiangere l’originale.
Ma sicuramente se i musicisti insistono in simili operazioni c’è un motivo, ed evidentemente, un tornaconto. E’ ovvio che in tempi in cui i festival jazz sono dedicati a De Andrè (sigh) o a David Bowie (doppio sigh ) proporre un repertorio con le canzoni del cantautore genovese o di chi per lui significa allargare notevolmente l’audience , riscuotere un immediato e facile consenso ed un interesse particolare dai direttori artistici più attenti al bilancio che alla qualità della proposta .
Eppure, al di là di queste semplici ma efficaci motivazioni, se passiamo poi all’ascolto, a mio parere la faccenda non sta in piedi, almeno dal punto di vista di un appassionato. Perfino nel concerto tributo di Danilo Rea a De Andrè, a mio modo di vedere la miglior proposta su questo terreno scivoloso, nonostante la indubbia classe, la raffinatezza ed il buon gusto del pianista, alla fine il ricordo dell’originale, di quella voce unica e inconfondibile e di quei testi indissolubilmente legati alla musica e mancanti nella versione strumentale, sono tali che in fondo si apprezza si la maestria di Rea ma nel particolare si preferisce comunque l’ascolto di De Andrè.
Eppure il fenomeno è in continua espansione, ormai si mette “in jazz” di tutto, da Mino Reitano a J.S. Bach, da Sergio Endrigo all’opera lirica. La storia, come sempre, non insegna. Basterebbe pensare a quante riletture di grandi del jazz di materiale non proveniente dal grande songbook americano hanno avuto successo e consenso dalla critica. Le contiamo al massimo sulle dita di un paio di mani, non di più, e per quanto riguarda il panorama nazionale solo Estate di Bruno Martino è diventata uno standard.
Rimanendo in ambito nazionale c’è naturalmente anche un fenomeno inverso, e cioè famosi motivi per lo più provenienti dalla canzone napoletana, ripresi da musicisti e cantanti americani. Anche qui mi pare di poter dire senza risultati memorabili. Ricordo a questo proposito una versione abbastanza recente , a mio gusto decisamente dimenticabile, di O Sole Mio da parte di Cassandra Wilson.
I musicisti sono propensi alla cover anche per ovvi motivi di ispirazione: scrivere e arrangiare brani originali è sicuramente compito più ingrato e meno redditizio, certamente rende meno anche in termini di visibilità mediatica, soprattutto oggi in un contesto dove la critica musicale è scomparsa dai grandi quotidiani ed è decisamente timida anche nei magazine dedicati.
Quindi, al di là delle incongruenze metriche, delle differenti qualità del materiale prescelto, dei rischi inevitabili che questo tipo di operazioni comportano, è molto facile imbattersi dal vivo e nei negozi di dischi in “progetti” di questo tipo. Eppure, allargando lo sguardo alla discografia mondiale, a me vengono in mente ben pochi album “a tema” non jazzistico che sono passati alla storia. Gil Evans con l’orchestra che legge Jimi Hendrix, ancora Gil con Miles che riarrangia il Concerto di Aranjuez ripreso anche da Jim Hall in formidabile compagnia . Poco altro. A meno di considerare Jaques Loussier come un grande del jazz. Ma non mi pare sia una affermazione plausibile.
Tornando alla affermazione iniziale, quella sul Laudario di Cortona, personalmente pur apprezzando i musicisti ed il lavoro di arrangiamento, rimango perplesso e dubbioso sull’”approccio jazzistico”. A me pare più un pastiche, che può piacere o meno, ma che ha poco a che vedere con la musica afro americana.
Buona parte di questi ‘progetti’ sono contraddistinti da un ‘troppo’: troppa complessità, troppe eterogenee risorse coinvolte e soprattutto troppa e premeditata intenzionalità. Gli esiti più felici del jazz si sono sempre invece accompagnati all’essenzialità, ad un’efficacia frutto di un lungo lavoro di lima e bulino volto a sfrondare il ridondante e l’eccessivo. E poi come prescindere da una fluida e sperimentata intesa di gruppo, che per forza di cosa è realizzabile perlopiù nell’ambito di piccole formazioni stabili, e non in caleidoscopici e spesso ponderosi ensemble nati per durare lo spazio di un mattino per ovvii ed ineludibili condizionamenti organizzativi ed economici? Il risultato è quindi perloiù quella che io chiamo la ‘musica del minimo comun denominatore’: niente guizzi di originalità, spesso una fluida e curata calligrafia, una scorrevole descrittività molto appoggiata al ‘programma’ che ne sta alla base. Musica magari piacevole al primo ascolto, ma che quasi sempre scivola come acqua sul vetro, sensazione che a lungo andare coglie anche un pubblico non smaliziato. Milton56
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