Oggi e domani ricorrono le date della scomparsa di due grandi personaggi della nostra musica. Il 5 gennaio del 1979 moriva a Cuernavaca, in Messico, Charles Mingus. Il 6 gennaio del 1999 la Befana si è presa Michel Petrucciani.
Vorrei ricordarli con due estratti, tratti da due libri diversi, uno piuttosto famoso e uno decisamente di nicchia. Il ricordo di Petrucciani l’ho dovuto estrapolare, ed è un vero peccato, perché meriterebbe una lettura integrale, ma lo spazio è, come sempre, tiranno. Buona lettura
„What do you think happens to a composer who is sincere and loves to write and has to wait thirty years to have someone play a piece of his music?“
Charles Mingus
Per suonare al Five Spot si era messo un vecchio maglione bucato sui gomiti e dei pantaloni strappati, da povero contadino straccione: apposta per far vergognare qualunque bianco in smoking fosse venuto ad ascoltare la sua musica.
Suonava Meditations cercando di raggiungere Eric, di parlargli, e sentiva invece la voce da cucchiaino rigirato dentro un bicchiere di una signora seduta accanto al palco, che parlava così fitto da dimenticare non solo dove si trovasse, ma anche chifosse sulla pedana e che cosa stesse suonando.
La collera di Mingus precedeva sempre di un decimo di secondo la sua consapevolezza di quel che faceva. quando si accorse che le stava urlando sulla faccia, aveva già rovesciato il tavolo. Quando il tavolo rovinò sul pavimento, lui stava già marciando giù dal palco. Quando lo sparpagliamento di vetri rotti s’acquietò, la sentì gridare qualcosa contro di lui. A quel punto intervenne anche un ubriaco del bar, la voce di una poiana se potesse parlare:
– Charlie, non è stata una bella cosa, proprio per niente.
Per un attimo pensò di sbattere la testa di quel tipo contro il bancone fino a farla scoppiare come una bustina di zucchero, ma quando la sua mente funzionava così, anticipando gli eventi, significava che non sarebbe successo nulla, oppure che sarebbe successo qualcos’altro, una cosa talmente improvvisa da cogliere di sorpresa anche lui.
Teneva il contrabbasso ben stretto per il manico, lanciando occhiate aggressive al pubblico, chiedendogli il suo appoggio.
Qualcuno ricordò che, mentre si sentiva fulminato a quel modo, gli aveva visto scorrere negli occhi tutta la vita come in un lampo. Tantoché in quell’istante aveva capito esattamente cosa volesse dire essere Mingus: quella mole enorme, quel non potersi mai sottrarre o nascondere a niente, quell’essere completamente in balìa delle proprie emozioni.
Scaraventò il contrabbasso contro la parete: uno schianto secco, l’eco sonoro delle corde, e rimase con il manico in mano ancora attaccato per le quattro corde al corpo dello strumento, come la marionetta di una tartaruga.
Lo strumento scricchilò e, quando lui ci passò sopra, cedette e si spaccò sotto il suo peso come un mare di legno laccato. Lasciò cadere il manico nel silenzio generale, rotto soltanto dall’ubriaco che esclamò:
– Oh, questo è troppo, Charlie, è veramente troppo.
Tornò a guardare quel tizio senza più alcuna intenzione di picchiarlo. La sua furia si era fatta pallida, trasparente e disperata come acqua che gocciola in un lavandino.
Uscì in strada, trascinandosi dietro il silenzio del club.
Mingus Fingus di Geoff Dyer » trad. Riccardo Brazzale e Chiara Carraro » tratto da Natura morta con custodia di sax
“I don’t believe in geniuses, I believe in hard work.”
Michel Petrucciani, pictured with Charles Lloyd
Così adesso sono morto, cavoli, e nella tomba vicino alla mia c’è nientemeno che Chopin. Se me l’avessero detto quand’ero piccolo non ci avrei mai creduto. A parte che grande non sono diventato mai, ché anche a trentasei anni ero alto un metro e due centimetri.
Certo che morire a trentasei anni non è mica uno scherzo, è come un racconto breve che finisce subito, è un po’ presto, cavoli, morire a trentasei anni. Ma d’altra parte lo sapevo già, lo sapevo già che finiva male, la mia vita. La mia vita è cominciata male dall’inizio, sì, perché già quando sono nato mi sono rotto in mille pezzi, mi sono sbriciolato come un biscotto. Eh sì, perché le mie ossa avevano poco calcio dentro, e così sono sempre stato come una meringa, che appena la tocchi va in frantumi. Osteogenesi imperfetta,la chiamarono, che poi vuol dire che c’hai le ossa che sembrano grissini.
(…)
Suonare era bello, era la mia vita. Coi piedi andavo piano, si capisce, ma con le mani andavo a cento all’ora e le sentivo sempre calde, le sentivo, le mie mani, e la tastiera Ia vedevo che fumava. Suonavo e me ne andavo per il mondo, e in tutto il mondo tenevo un sacco di concerti, e solo nell’ultimo anno di concerti ne contai duecentoventi.
Suonare suonavo, suonavo sempre. Mi arrampicavo sullo sgabello e poi partivo come un razzo, andavo in orbita. Avevo sempre i riflettori in faccia, mentre suonavo, e nel buio non vedevo niente, ma quelli giù dal palco nel buio li sentivo che trattenevano il respiro, mentre picchiavo sopra i tasti, e non tossiva mai nessuno, non tossiva, e nessuno si soffiava il naso mai.
E quando cominciavo dalle dita mi usciva fuori tutta quella musica, mi usciva, veniva fuori come acqua fresca, bagnava la tastiera e andava giù sul legno delle tavole del palco, colava giù sul pavimento e bagnava i piedi degli spettatori a uno a uno, e gli saliva per le gambe e andava su, e a quelli gli veniva freddo, e alla fine con le luci accese li vedevi tutti bagnati, in piedi, tutti inzuppati che battevano le mani. E dopo le donne venivano nel camerino e mi baciavano. E lo sapevo ch’ero brutto, ma con la musica e le donne mi veniva tutta la bellezza.
(…)
Una volta a Bergamo mentre suonavo mi ruppi il braccio destro, ma nessuno se ne accorse, perché suonai tutto il tempo con il braccio rotto come niente fosse. A un altro concerto una sera suonammo per due ore, faceva un caldo boia e sudai come una fontana. Le mani mi scottavano, la testa pure, ero stanco e avevo mal di schiena, e avevo solo voglia di tornarmene in albergo e di sdraiarmi a letto. Ma quelli chiesero il bis, e poi un altro bis e un altro ancora, e così suonai ancora per mezz’ora, suonai, e a casa il medico disse che mi ero rotto il coccige, che è l’osso del sedere, l’ultimo osso della schiena prima del culo.
(…)
Mi piaceva, la vita, cavoli. Mi piacevano un sacco di cose. Suonare, fare l’amore, stare con gli amici. Anche mangiare, mi piaceva, e a casa a volte venivano gli amici e cucinavo io, e si mangiava e si beveva alla grande, col vino, i dolci e la pasta fatta in casa, e il piatto che facevo meglio era il Pollo alla Petrucciani, che ti leccavi i baffi. E quando cucinavo il pollo mi ci mettevo di gusto, mi ci mettevo, e lo facevo bene, e farlo bene era più difficile che suonare il piano. Mangiavamo e bevevamo, e a un certo punto c’era sempre qualcuno che suonava.
E, dopo mangiato, quando tutti se ne andavano, giocavo sul tappeto con mio figlio Alexander, e giocavamo piano perché aveva le ossa di ricotta come me, e un giorno, mentre giocavamo piano, all’improvviso fece la faccia triste, guardò sua madre e disse: “Perché mi hai fatto?”
(…)
Mio padre era orgoglioso, diceva che ero proprio bravo, con il piano. Che ero il migliore. “Quando non ci sarò più”, diceva, “tu suona, suona sempre, Michel, e mentre suoni ricordati che sarò sempre sopra di te che ti guardo da là sopra”.
E, invece adesso sono io che da qua sopra guardo lui.
Venne un Natale, e Natale io lo odiavo, perché da bambino a Natale e a Capodanno ero sempre in ospedale con qualche osso rotto.
Finalmente venne un Natale che ero tutto intero e avevo solo un po’ di raffreddore, e dopo venne Capodanno, e a Capodanno, per andare a passeggiare in spiaggia con la mia donna per mano, mi beccai quella polmonite, e sulla spiaggia caddi a terra come un fico secco. Mi tirai su da terra e le cose non erano più cose, erano ombre. Allora Isabelle mi prese in braccio e mi baciò, e dopo andammo all’ospedale. Seduta sulla sedia aveva quello sguardo strano, che usciva da quegli occhi chiari pieno di paura. E dal letto la guardavo che piangeva con quegli occhi grandi e chiari e sorridevo e pensavo che io così brutto ero felice di avere vicino una donna così bella, e pensavo che sempre avevo avuto accanto donne belle. E poi il 6 gennaio da sotto la coperta le dissi che avevo freddo alle mani e le chiesi se me le voleva riscaldare.
Lei allora prese le mie mani nelle sue e me le scaldò, e dopo uscì un momento a prendermi un caffè, e io proprio in quel momento sono morto, cavoli, il 6 gennaio, e adesso qui vicino a Chopin mi viene da ridere, a pensarci, perché io, pieno di donne belle, sono morto proprio mentre arrivava la befana.
tratto da: Antonio Ferrara, in “Parole Fuori” edizioni Il Castoro, Milano, 2013