Pat Metheny “From this place”

La voglia di tornare sui territori sonori del Pat Metheny Group, dopo tanti esperimenti alternativi, l’amore per le colonne sonore e le orchestrazioni degli album della CTI di fine anni ’60, la passione per la scoperta e la valorizzazione di nuovi talenti e, non ultimo, la rabbia per la condizione politico sociale del proprio paese.
C’è tutto questo nel nuovo disco di Pat Metheny “From this place”, presentato da una potente, simbolica immagine di una minacciosa tromba d’aria su cielo drammaticamente scuro.
Molte delle dieci lunghe composizioni echeggiano chiaramente il classico stile PMG, quello di una serie di fortunati e celebri album chiusa con “The way up” del 2005, tanto che i più affezionati fans non faticheranno a trovare affinità al limite dell’autocitazione, oltrechè nella struttura dei brani, anche in specifici particolari come la chitarra synth di “Same river” o la base ritmica di “Sixty six” che quasi plagia quella della celebre “Last train home”.
Un elemento nuovo è il ruolo dell’orchestra, la Hollywood Symphonic diretta da Joel McNeely su partiture di due maestri come Allan Broadbent e Gil Goldstein , il cui intervento è stato “applicato” in un momento successivo alle sessions registrate dal quartetto , al fine di preservare l’immediatezza della esecuzione. In verità, l’intervento degli archi rischia talvolta di appesantire una trama sonora già molto ricca, contribuendo alla drammatizzazione di alcuni temi, a costo di sfiorare la saturazione del panorama.
Ed è quasi del tutto nuovo anche il gruppo di musicisti, a lungo rodato on the road fino ad avere perfettamente assimilato il repertorio classico dei colleghi storici, e poi ammesso a praticare il nuovo materiale direttamente in studio, secondo una modalità esplcitamente ispirata a quanto “inventato” da Miles Davis.  C’è il veterano Antonio Sanchez, che  sa articolare il suo muscolare drumming a seconda dei climi, accentuando le enfasi orchestrali o garantendo l’adeguata leggerezza alle ballads; accanto a lui  la prova di Linda May Han Oh è maiusucola (da ascoltare con attenzione nel finale di “Wide and far” o nel soliloquio di “Sixty six” ) ed in grado di assicurare ai brani elasticità e dinamicità, con le proprie trame agili ed essenziali ; e poi Gwilyn Simcock, recente stella dell’universo musicale britannico (con due album di piano solo pubblicati da ACT ed una miriade di collaborazioni con, fra gli altri, Dave Holland, Kenny Wheeler, Lee Konitz e Bill Bruford), un pianista dallo stile più asciutto di quello del compianto Lyle Mays, sebbene anch’egli in equilibrio fra jazz e classica, che, intrecciando i propri tasti con le corde di Pat, assicura all’opera alcuni momenti di grande intensità.
L’iniziale “America undefined”, sintetizza questi elementi in una suite di oltre tredici minuti, la cui essenza, come in molte altre composizioni del disco, richiede impegno e ripetuti ascolti per essere colta appieno: dapprima appare aerea ed inafferrabile, quasi una bolla di sapone pronta da infrangersi sulla soglia dell’attenzione; acquistando confidenza, rivela, invece, una complessa struttura nella quale si evidenziano elementi concreti, come l’impetuoso crescendo piano/batteria, ed il soliloquio della chitarra, ed eteree, incombenti, nuvole sonore che sovrastano panorami ambientali, fino al finale dominato dalla grandeur orchestrale e dai bicipiti di Sanchez. “You are” appartiene allo stesso milieu, con quartetto ed orchestra a dividersi la scena e l’aggiunta di una parte corale.
Same river” introdotta dal basso, si crogiuola in un andamento latinegginte spezzato da picchi orchestrali ed acompagnato dall’ellittico solo del pianoforte prima delle deflagrazioni della chitarra synth. I brani che prediligo sono quelli nei quali il ritmo prende corpo e si crea un terreno favorevole per i celebri voli di Pat: “Wide and far” dinamica e bluesy, condotta dalla chitarra in pieno idioma PMG e con il basso della Oh che alimenta un groove entusiasmante, “Pathmaker,” con intricata struttura tematica che si apre agli spazi solisti di chitarra e orchestra prima e del pianoforte subito dopo, con una coda di breaks della batteria, “Everything explained“, grintosa e  vagamente in sapor di flamenco, con gli assoli di Metheny e Simcock che si susseguono sostenuti da una ritmica inarrestabile puntando sempre più in alto, fino al classico finale strappato. Infine “Sixty six“, che parte da terra per arrivare, con il contributo di tutti, molto in alto, in un cielo azzurro e limpido.

Ci sono due brani con ospiti del quartetto base e dell’orchestra : la languida ballad pianistica “The Past in Us” è zuccherata dall’armonica di Gregoire Maret, e l’eterea title track affida al canto di Me Shell Ngedeocello le liriche di Alison Riley ispirate al rammarico post elettorale ed alla speranza di “better days ahead” .
La conclusione è tutta per archi e chitarra con le note old fashioned di “Love may take awhile”.
Il bilancio finale rispecchia l’alto livello qualitativo delle composizioni e delle esecuzioni del gruppo di fuoriclasse, anche se resta difficile da comprendere l’opinione dell’autore, che ne parla come del ” disco che volevo fare da una vita“. “From this place“, pur godibilissimo, sostanzialmente non aggiunge novità ad una discografia già ricca di episodi di analogo valore.

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