Cerchiamo di sorvolare sul contesto in cui scrivo (sono a Milano), caratterizzato ormai da una vera ‘bancarotta dell’informazione’, da cui ahimè non vanno esenti nemmeno parecchi uomini di scienza. Nella progressiva paralisi che sta colpendo quasi tutti gli aspetti della vita sociale, una delle prime vittime è stata la cultura, ed in primis la musica: e questo contribuisce non poco ad amplificare la sensazione di vivere un ‘tempo vuoto’, che molti di noi sperimentano in situazioni di isolamento più o meno marcato. Purtroppo le prospettive di recupero sono a dir poco nebulose ed indeterminate e stiamo pur certi che quando sarà, stadi e discoteche riapriranno i battenti prima delle sale da concerto. Cerchiamo di non pensare per il momento alle conseguenze a lungo termine di questa situazione (ed al probabile futuro che attende questo Paese).
L’unica opportunità di distrazione che mi viene in mente è quella di scartare un metaforico ‘pacco viveri’ musicale, del tipo di quelli che la Croce Rossa Internazionale recapitava ai prigionieri di guerra. Il nostro è ahimè a pagamento, al contrario di quelli spediti da Ginevra, ma, considerato il momento, non starei a sottilizzare troppo. Come i pacchi svizzeri, anche il nostro ha un contenuto molto assortito: ho radunato album parecchio eterogenei quanto a tendenze ed anche riguardo al canale di distribuzione (il che non guasta in questo momento di grande confusione logistica). Alcuni li ho ascoltati un po’ più approfonditamente, altri meno: cercherò comunque di dare un qualche sommario inquadramento a tutti, in modo da consentire a ciascuno di voi di trovare la musica che gli farà un po’ di compagnia in queste non facili giornate.
‘Last Deserts’ di Liberty Elmann, PI Recordings. Quest’uscita è una relativa sorpresa, brevemente preavvisata sulla benemerita piattaforma Bandcamp . La minuscola etichetta PI Recording ha molti meriti, ma direi che la comunicazione e la promozione delle sue centellinate uscite non sono proprio il suo forte. Nel 2015 non mi era passato inosservato un altro album PI, a sua firma, ‘Radiate’, che tra l’altro vede impegnata la stessa ricca formazione di ‘Last Deserts’: oltre alla chitarra di Liberty, abbiamo il sax alto di Steve Lehman, la tromba di Johnathan Finlayson, la tuba di Josè Davila (reduce da alcune recenti apparizioni a fianco di Henry Threadgill), il basso di Steven Crump (anche lui in libera uscita dal trio di Vijay Iyer) e Damion Reid alla batteria. Compagnia molto ben assortita, sia nelle voci strumentali che nelle personalità musicali, come si può vedere. Sintomatico come poi gran parte dei musicisti PI tendano ad interagire intensamente ed in sempre mutevoli combinazioni tra di loro: a distanza di decenni, il modello Blue Note fa ancora scuola…. La minisuite ‘Last Deserts’ che dà titolo all’album non è forse il suo pezzo forte, afflitta da una certa rigidità compositiva tipica di una sorta di ‘saggio’: pesa probabilmente la commissione con annesso cospicuo ‘grant’, difficile non esser tentati di compiacere chi offre un generoso sostegno finanziario (soprattutto di questi tempi). Per il resto l’album guadagna quota e soprattutto dinamismo, c’è modo di apprezzare uno stile chitarristico raccolto e concentrato, alieno da tentazioni di virtuosismo atletico e spettacolare; a riempire gli spazi ci pensa un Lehman irruente ed energico. E’ poi evidente il desiderio di Ellman di mettersi in luce come arrangiatore e leader di ensemles compositi.
Jeff Parker, “ Suite for Max Brown”, International Anthem. Eh sì, un altro chitarrista (come vedete, al momento giusto so metter tra parentesi le mie idiosincrasie). Per me è una scoperta, ma in realtà ha già carriera densa alle spalle, anche se lontana dalle ribalte più in luce. La ‘New Breed” che accompagna Parker è molto variabile ed assortita, ma con una presenza pressocchè costante di chitarra e percussioni. Ne scaturisce un disco collettivo, un party dove entrano ed escono molte presenze illustri, sul modello degli ultimi lavori di Makaya McCraven: che infatti è tra gli ospiti, conferendo ancora una volta il contributo del suo irresistibile drive, ascoltare ‘Go Away’ per credere. La coralità dell’album è accentuata dalla sua struttura a mosaico di piccoli tasselli, ma questo non si traduce in frammentarietà od episodicità: tutti i brani si inseriscono fluidamente l’uno nell’altro a testimonianza di omogeneità e consistenza dell’ispirazione. Anche qui Parker mostra uno stile strumentale minimalistico, ma connotato però da un sottile, ma ben riconoscibile blues feeling abbastanza raro di questi tempi. Decisamente emozionante un ‘After the Rain’: Coltrane è sempre tra noi, e molti dei suoi brani stanno sempre più emergendo come autentici standard contemporanei, ad onta dei cinquant’anni e delle molte ondate musicali trascorse nel frattempo
Tim Berne’ Snakeoil, “The Fantastic Mrs.10”, Intakt. I collaudati Snakeoil di Berne hanno aggiunto al suo sax, al piano di Matt Mitchell, al raro clarinetto di Oscar Noriega ed alla batteria di Ches Smith, una chitarra: e non una qualsiasi, bensì quella di Marc Ducret. Compagnia non da poco, ma soprattutto piuttosto omogenea come si vede. Gli Snakeoil + 1 hanno anche cambiato casa: dopo vari anni e qualche album presso ECM, hanno traslocato in blocco presso Intakt. Non è un trasloco addebitabile a questioni pratiche di contratto, visibilità ecc. A mio avviso, anche un primo, rapido ascolto dell’album fa pensare a ben precise ragioni d’ordine artistico. La musica di Berne rimane sempre di frontiera, ma appare caratterizzata da una densità calda, da una fluvialità lontana dalla meccanicità di altra musica di ricerca. Ascoltandola, non ho potuto fare a meno di cogliere analogie con “Iron against the Wind” di Alexander Hawkins (altro campione della label svizzera): analoghe la varietà e l’originalità dei paesaggi sonori, sempre attraversati fa improvvise e vaste aperture. Tutte caratteristiche che rientrano perfettamente nella cifra distintiva della Intakt, che ormai vanta un catalogo che, oltre ad esser stimolante ed intrigante per il parterre dei musicisti che lo alimentano (molti americani, si noti), vanta sempre più spiccati caratteri di omogeneità. In una parola, Intakt comincia ad esser la casa di una sorta di ‘avanguardia calda’, cui dovrebbero concedere una chance anche molti ascoltatori che preferiscono tenersi lontani dalle frontiere più lontane della scena attuale in nome della ricerca di maggiore ed immediata comunicatività . In ogni caso, brava Intakt: per me comincia ad essere una di quelle etichette che fanno la differenza, e che da sole ti inducono ad acquistare a scatola chiusa musica di cui sai poco o nulla.
Rimanete in ascolto, Radio Stalag promette l’arrivo di altri ‘pacchi da Ginevra’ . mIlton56