Hapax legomena…

Nel gergo dei grecisti è il termine che indica i vocaboli che ricorrono una sola volta nei testi della classicità greca pervenuti sino a noi. L’assenza di plurime ricorrenze in ambiti testuali diversi rende il preciso significato di questi termini perlopiù sfuggente e tendenzialmente inafferrabile, degli oggetti filologici non identificati.

Anche la musica ha i suoi hapax legomena, soprattutto il jazz, sino a non molto tempo fa punteggiato di di zone d’ombra che rasentano il mito e la leggenda. Spesso e volentieri mi sono divertito a provocare l’intelligenza artificiale che compila le ‘Scelte album’ con cui Spotify cerca di sedurti: ma questa volta l’Hal 9000 svedese ha segnato un punto a suo favore, e non da poco.

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Scorrendo le miniature degli album proposti, mi fermo d’istinto su questa. Da ex fotografo da strapazzo vi riconosco una certa aria anni ’60: una tonalità di fondo seppia, un taglio d’inquadratura obliquo e dinamico, dei caratteri grafici inconfondibilmente pop. L’artwork delle copertine è sempre stato un potente alleato del jazzfan nei ‘blind date’ con musiche totalmente sconosciute: una delle più grandi perdite dell’era della musica liquida… . E poi l’etichetta, altro indizio rivelatore: è un’album del 1965 della ESP Disk, ormai mitologica casa discografica fondata dall’avvocato newyorkese Bernard Stollman, una meteora resasi famosa per la grande libertà concessa ai musicisti e per l’audacia delle scelte di repertorio. A distanza di molti anni dal suo travagliato declino, la sua memoria è ancora viva nel cuore di molti appassionati che l’anno conosciuta tra gli anni ’60 e ’70. Altrettanto indelebile è il ricordo lasciato a molti creditori…..

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“Eye and Ear Control”, un album molto rappresentativo di ESP… giusto per capire di chi parliamo….

A questo punto, il click sul tasto play è di fatto un riflesso pabloviano: ed è subito colpo di fulmine con il misterioso Lowell Davidson. Uno sconosciuto che però debutta discograficamente con Gary Peacock al basso e Milford Graves alla batteria. ‘Dimmi con chi suoni, e ti dirò chi sei’, altra regola speditiva del jazzofilo che si rivela quasi infallibile. Graves e Peacock erano infatti destinati già dai primi anni ’60 ad una carriera di primo piano nella prima ondata del free jazz più innovativo e meno stereotipato: il cursus honorum di Peacock sarà lungo e prestigioso, più appartata ed ombrosa sarà invece la strada di Graves, percussionista ‘totale’ e di vasti orizzonti.

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Anche da Blue Note si scherzava poco con le copertine….

La musica che scorre con ipnotica fluidità ed intensità nei 30/40 minuti successivi è una vera sorpresa, uno choc alquanto insolito considerati i 50 anni di questa musica che ho sulle spalle. E già questo vale come tributo ad un talento di rara originalità. Ma nel jazz nessuno nasce dalla testa di Minerva, checchè ne possa pensare qualcuno: e quindi qualche filo, anche se sottile e molto lasco, va pur tirato. Ed il primo nodo che si rivela, quello più prossimo, è il Cecil Taylor di quegli anni, quello che stava per dare alla luce quegli impressionanti, isolati monoliti che sono ‘Conquistador’ ed ‘Unit Structures’. Stesso tocco nervoso, stessa fantasia nell’ideare frasi frammentarie, ma pervase da un’inarrestabile energia. Ma ci sono anche delle evidenti differenze: quella di Taylor è spesso una musica monocroma, totalmente concentrata sulla sua struttura complessa e spigolosa, possiede una qualità quasi ‘minerale’: spesso mi richiama alla mente quelle affascinanti scogliere basaltiche irlandesi.

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Il geometrico basalto di Cecil….

Nella nervosa rapsodicità di Davidson c’è sì la complessità, un muoversi audacemente esplorativo, ma c’è anche qualcosa di più e di diverso: ci sono colori cangianti che filtrano da un’incessante gioco di rifrazioni, c’è intensità lirica spesso sottilmente dissimulata, ma molto più esplicita in altri momenti. Una struttura a maglie larghe, con brevissime pause intermittenti che rilanciano continuamente un climax che poggia su un magnifico interplay con Graves e Peacock: i due conferiscono al trio una concentrata intensità che raramente, molto raramente è dato di incontrare in formazioni del genere. Nonostante la sua prospettiva ‘cubista’, il disco si muove in un’omogenea atmosfera sospesa ed arcana, che ci perviene tutt’oggi con emozione quanto mai vivida, a riprova della visionaria originalità di quest’opera.

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Gli iridescenti cristali di Lowell….

Alla fine dell’album si vorrebbe subito qualcosa d’altro di Lowell e di questo magnifico trio: ma sia il disco che il suo leader sono appunto degli hapax. Di Lowell si sa poco: nato nel 1941 da una famiglia in cui certo non difettavano gli stimoli intellettuali (padre teologo), il nostro ha personalità poliedrica che lo porta a dividersi tra la musica e la sua carriera di biochimico ad Harvard. Qui rimarrà vittima di un grave incidente di laboratorio, ai cui postumi con ogni probabilità va addebitata la morte precoce che lo colse a 49 anni nel 1990. La sua carriera discografica (a quanto sembra caldeggiata vivamente da Ornette Coleman) sostanzialmente si esaurisce con questo trio stellare: corre la leggenda di un nastro registrato dal vivo, ma considerata l’infelice diaspora subita dai masters di ESP dopo il suo naufragio, non è il caso di far gran conto su di una sua possibile riemersione. Una storia gravata dall’ombra del mistero: un classico del jazz, singolarmente anche di quello rovente e clamoroso dei primi anni ’60.

E siccome l’album fisico del Lowell Davidson Trio è un’araba fenice, eccovi i link per ascoltare alcuni brani su YouTube, oltre a quelli dell’intero album su Spotify. Che il chimerico Lowell possa sorprendervi come ha fatto con me. Milton56

 

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