WAYNE ESCOFFERY –
The Humble Warrior
(Smoke Sessions)
Il sax tenore londinese Wayne Escoffery (classe 1975), newyorkese d’adozione, è un fiero rappresentante di un modern mainstream che guarda con devozione e trae ispirazione da Coltrane, Dexter Gordon, Shorter, in un ambito squisitamente afroamericano. Membro stabile della Mingus Big Band, cofondatore della Black Art Jazz Collective e da un decennio nei gruppi di Tom Harrell, il lungo Wayne, che sul palco ha un’impatto da stella NBA (scavalla il metro e novanta) approda al suo quattordicesimo lavoro come leader, il primo per Smoke Sessions, e naturalmente lo fa con la formazione tipo: Dave Kikoski, Ugonna Okegwo e Ralph Peterson sono nomi che gli appassionati conoscono bene, jazzisti a tutto tondo, oltre che una garanzia mondiale a livello ritmico.
A proposito di statura, è quella da leader riconosciuto che Wayne ha decisamente raggiunto, come evidenziato dalle parole dei navigati colleghi intervistati nel video sopra proposto. Una leadership naturale che si manifesta in questo nuovo lavoro collegato a filo triplo alla migliore storia del jazz, infatti se in altri episodi in discografia il nostro Wayne aveva già celebrato i padri nobili (titoli come “Veneration” e “Vortex” non sono passati inosservati ai jazz fans) ecco che qui il gioco si fa decisamente scoperto fin dal titolo e Wayne, in totale controllo, appare legittimo erede di una stirpe nobile e meticcia, jazzista fino al midollo.
Dietro la figura dell’umile guerriero si riconoscono in primis i suoi mentori Mulgrew Miller e Jackie McLean, se non fu un’investitura la loro facciamo fatica a pensarne ad altre, ma anche tanti altri guerrieri che hanno deposto le armi in questi mesi lasciando viva una fiamma che va portata avanti nel più personale dei modi, ma mantenendo alto il concetto di disciplina jazzistica non disgiunta dal coraggio d’innovare, sulla scia di cats di diversi stili e generazioni, come Roy Hargrove, Harold Mabern, Richard Wyands, Jimmy Heat, musicisti il cui lascito è tanto vasto quanto, in fondo, ineludibile.
In quest’ottica si dipana un disco dal potente afflato spirituale in cui il lavoro d’insieme prevale sui numerosi spunti virtuosistici, con una voce sassofonistica sempre più eloquente, di quelle che metterebbero in crisi legioni di colleghi in un’eventuale chase, in bilico tra picchi emozionali (“Chain Gang” dove troviamo un fantastico Kikoski sugli scudi) ed episodi che scivolano in una certa anodina souplesse (“AKA Reggie”), mentre appare centrale, e del tutto inconsueta, la scelta di eseguire la “Missa Brevis” di Benjamin Britten, una virtuosistica composizione del ‘59 dalle intricate melodie e con implicazioni dodecafoniche, molto amata dal leader che aggiunge alla band la tromba di Randy Brecker, la chitarra di David Gilmore e la voce bianca del figlio 11enne di Escoffery nel “Benedictus”.
Una preghiera che si alza sincera e salvifica e che suggella un disco di gran classe, un balsamo per i cupi giorni che il mondo intero vive mentre scriviamo queste note.
(Courtesy of AudioReview)