Un tranquillo college in campagna

Ho letto con piacere la notizia dell’attribuzione del premio Pulitzer  ad Anthony Davis. Per due motivi: primo,  perché un riconoscimento ufficiale ad un’uomo dalle inequivocabili radici e frequentazioni jazzistiche vale a ricordare agli americani (e soprattutto alla loro intellighentsia) qual’è la loro vera musica (e come è stata trattata..). Secondo, perché è servito a far riemergere dall’ombra un musicista che negli anni ’70 avevo amato e seguito e che invece negli ultimi decenni sembrava aver fatto perdere le sue tracce sulla scena discografica e concertistica.

Fortunatamente quest’eclissi non è coincisa con un forzato abbandono della musica, e men che meno con il regresso ad una vita di strada, destino di morte civile che spesso ha colpito musicisti refrattari a girare le vele nella direzione del vento del momento e viceversa fedeli a concezioni musicali più difficilmente ‘promozionabili’ (destini che proprio recentemente ci sono stati rammemorati, e temo che lo saranno ancor di più nel prossimo futuro…).

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Sin dalle prime fasi della sua carriera, Davis ha mostrato una crescente propensione per la composizione strutturata e basata su risorse che eccedono quelle agevolmente disponibili nel mondo del jazz. Logico quindi che con il tempo abbia cercato ed infine trovato un suo spazio nell’insegnamento universitario.

Sono sempre convinto che quello tra il jazz e la c.d. ‘musica contemporanea’ sia un abbraccio rischioso e quasi sempre fatale per il primo: ma va anche riconosciuto che la musica di ricerca che si sviluppa in America in ambito accademico assomiglia poco a quel recinto chiuso in sé stesso, e soprattutto perlopiù indifferente ad un rapporto sentito con un pubblico anche limitato, che è da decenni in Europa.

Tuttavia, va anche osservato che la musica che esce dai sereni e bucolici campus americani trova una sua imprescindibile ragione d’essere nei ‘grants’ e nelle commissioni di un grande e danaroso mecenatismo privato (realtà pressocchè sconosciuta alle nostre latitudini). Per quanto questi mecenati siano sostanzialmente disinteressati ed al più puntino legittimamente ad un lustro d’immagine, non è il caso di nascondersi che questa relazione non possa non pesare silenziosamente ed inconsciamente sui creatori, che senz’altro avranno presenti le inclinazioni ed i valori estetici di riferimento dei committenti/finanziatori. Per tacere del fatto che queste opere hanno un ben preciso circuito di sbocco (teatri ed istituzioni musicali ufficiali), che questi valori condividono ed anzi perpetuano. Senza contare che se la ‘nicchia accademica’ è serena e quieta, non è del tutto ‘protetta’ e men che mai permanente: negli States gli incarichi accademici – soprattutto quelli delle ‘humanities’ – sono a contratto, ed il ‘consensus’ dell’ambiente accademico e di quello sociale di riferimento pesa non poco nel loro rinnovo.

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..e c’è stato un momento in cui persino jazzmen appartati come Anthony Davis non riuscivano a non lasciare una traccia in Italia. Grazie, Red Record….

Per tacer del fatto che se New York non è l’America, ed i suoi clubs e lofts non sono l’unica ed esclusiva ‘scena’ americana, senza dubbio essa resta l’Atene del jazz. Mentre i ‘campus sereni e quieti’ rimangono appunto un’Arcadia bucolica persa nell’immensa provincia americana.

Ma forse il prezzo più alto che la ‘quieta nicchia accademica’ esige è quello dell’uscita dalla ‘main street’ jazzistica: una strada appunto, fitta di durezze, di condizionamenti organizzativi ed economici, tuttavia un’ambiente che pur nella sua problematicità e conflittualità rimane il ‘focus’, il campo privilegiato della creazione jazzistica e del suo sviluppo. E poi una strada è essenzialmente un ambiente popolato e ‘caldo’, dove la relazione con il pubblico, talvolta complessa e contrastata, è comunque immediata, naturale e soprattutto imprescindibile. Ed è dall’incontro-scontro con questa ‘strada’ che nasce quasi sempre l’agilità di forme, la sintesi folgorante e la tensione che sono l’ ubi consistam del jazz, quello che ne ha fatto una musica unica e tutt’oggi insostituibile.

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Miles Davis e Juliette Greco, Parigi, fine anni ’40:  qui il biglietto di ritorno è costato veramente caro…..

E questo ragionamento ha una sua empirica ‘prova del nove’. Quasi tutti i jazzmen che approdarono in Europa, e soprattutto in Francia, tra la fine degli anni ’40 ed i primi anni ’50 vissero quell’esperienza come un sogno ad occhi aperti: riconoscimento sociale ed artistico, un pubblico che non li considerava solo il background di un cocktail party ma li attendeva come i profeti di una nuova era, interviste e mondanità ai massimi livelli. Per quasi tutti loro la tentazione di voltare per sempre le spalle all’America di Jim Crow, a quella dei nights sotto la tutela dei ‘bravi ragazzi’ che anni dopo avremmo visto nei film di Coppola e Scorsese, fu fortissima. Eppure la quasi totalità di loro riattraversò l’oceano, anche se con il cuore pesante e tanta rabbia in corpo: e questa la sentiremo forte e chiara nella musica degli anni a seguire.

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1960, una copertina che racconta più di molte parole…

E sapevano che sarebbe stato ancora più duro l’ impatto con una realtà tuttora imbevuta di razzismo, di pesante conformismo sociale ed intellettuale e di spietata competitività, quasi sempre più giocata sull’apparire e sul vendere che non sul creare. Ma non volevano allontanarsi dal nocciolo caldo dello sviluppo di questa musica, non volevano rinunziare a dire la loro parola là dove poteva risuonare più forte. L’Europa rimase un rifugio oggetto di un’intensa frequentazione, la superficie del mare da cui riprendere il fiato. Coloro che invece decisero l’esilio per sempre ebbero invece carriere tranquille, qualche volta anche sotto il profilo economico, una notorietà circoscritta, seminarono nel Vecchio Continente: ma nelle storie del jazz che di lì a qualche anno cominciarono a fiorire per loro rimasero dei paragrafi un po’ sbrigativi in fondo a capitoli ben più densi.

Il circuito discografico del jazz è oggi quantonai polverizzato e precario, ma a questo a punto speriamo che riesca a trovare la sua via verso di noi un altro album di Anthony Davis, come il classico messaggio in bottiglia di un Robinson che ci scrive da un’isola lontana. Qualcosa che assomigli a questo limpido, luminoso trio del 1982: il violoncello di Abdul Wadud (strumento che ricorre raramente nel jazz, ma quando appare annunzia spesso tempi nuovi) ed il flauto di James Newton, un altro ‘robinson’ di cui sentiamo molto la mancanza. Ascoltateli tutti questi 42 minuti, è tempo ben speso. Soprattutto oggi. Milton56

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