Da anni nei cartelloni dei festival italiani e non, campeggiano nomi di musicisti pop, rock e quant’altro possa far cassetta. Si, perché il vero motivo non è “allargare l’orizzonte” come sbandierano avidi addetti ai lavori , bensi’ aumentare i profitti. E si sa, il buon vecchio jazz non è propriamente adatto alla bisogna. Come diceva Leonard Feather, “Gli affari sono affari, il jazz è arte, e raramente le due cose si incontrano.”
Per il disperato jazzofilo che si vede conquistare le piazze estive preferite dai Massimo Ranieri e dai Gino Paoli rimane ben poco da fare: accontentarsi dei buoni nomi che, quasi clandestinamente i grandi festival elargiscono a tarda notte, oppure frequentare i piccoli festival di tendenza, dove non tutto è oro, ma almeno le scelte sono fatte con la passione e non con il massimizzatore di profitti.
Sono convinto che questa visione iper affaristica della musica jazz e dei festival (in teoria) ad essa dedicata rientri nelle regole che gli sponsor, privati e pubblici, impongono ai direttori artistici.
Certamente non nelle suggestioni create da Le 50 sfumature di jazz, libro e film di fantasy ma di grande successo negli anni scorsi che ha portato le masse a credere che Mika ed Elio e le Storie Tese, solo due tra i tanti esempi possibili, siano tipici jazzisti di stanza a Perugia, diretti successori dei vari Duke, Bird, Miles, Monk.
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