Ancora una volta eccomi qui a giocare di rimessa. Le considerazioni dell’amico Rob non sono certo nuove, ma nel contesto attuale suggeriscono altre riflessioni.
Diamo atto ad Umbria Jazz del caparbio tentativo di ‘riaprire’ la musica dal vivo e di farlo con il massimo del glamour: quasi un’azione dimostrativa, vista la grande indeterminazione ed incertezza che regna sui ‘dettagli organizzativi’… ovviamente si fa dell’ironia, perché ormai questi ‘dettagli’ fanno la differenza tra fare e non fare le cose. Va anche riconosciuto che una ‘rottura’ di questo genere non poteva che esser alla portata di un soggetto con una possente e rodata macchina organizzativa, e soprattutto dotato di grande influenza su tutti i soggetti del territorio, sia istituzionali che privati: mi sembra già di aver colto reazioni di giubilo da parte delle associazioni commercianti perugini.
Ma esser grandi ha anche i suoi inconvenienti: la possente macchina organizzativa esige un risultato sicuro, quantomeno in termini d’immagine (che è quel che più conta in un frangente del genere, dubito che nella prossima estate si possano fare questioni d’incasso). Ne discende inesorabilmente un cartellone chiaramente orientato ad ottenere un risultato garantito ed assicurato sia in termini di concorso di pubblico (visti i tempi che corrono, probabilmente un pugno di ‘happy few’, selezionati a loro volta per dare il maggior lustro mondano possibile alla manifestazione), che di risonanza mediatica: e sappiamo benissimo che livelli di selettività ed approfondimento sfoggino i nostri media generalisti quando due-tre volte l’anno gli capita di occuparsi di questa musica aliena che è il jazz in Italia.
E gli altri, quelli che grandi ed influenti non sono? Per loro è venuto il momento di importanti riflessioni e di scelte decisive. Da appassionato di questa musica, ma anche da materialista disincantato, ormai non mi aspetto più nulla da una realtà come Umbria Jazz Perugia (l’edizione Winter di Orvieto è altro discorso): le esperienze dirette della scorsa estate (qui e qui) mi fanno pensare che una buona parte del pubblico ‘storico’ del festival umbro abbia tratto le mie stesse conclusioni ed abbia ‘votato con i piedi’.
Ed è a questi ‘orfani della musica’ che i ‘piccoli’ ed i ‘minori’ devono rivolgersi: non è questione di alta strategia, ma semplicemente una questione di sopravvivenza. Ma questo nocciolo di ‘irriducibili’ dev’esser solo una base di partenza: tutti, appassionati hardcore, organizzatori ed anche musicisti, devono porsi il problema di una graduale estensione e rinnovamento del pubblico del jazz in Italia. Non fosse altro che per arginare tentativi già in atto (vedi Fano) per ridurre drasticamente i già pochi contributi che vanno alle stagioni jazzistiche più strutturate e radicate: l’argomento del ridotto bacino d’interessati sarà brandito animosamente, grazie anche alla pressocchè totale invisibilità della nostra musica nella dimensione della mediasfera.
SIAE e Vigilanza Urbana avranno da ridire, ma negli anni ’70 tanti semi di musica sono stati sparsi così. E molti sono germogliati….
Dai menzionati rischi del gigantismo discende che chi vuole fare proposte di qualità che siano organizzativamente ed economicamente sostenibili dovrà puntare per questa estate ad iniziative più piccole e raccolte, che implichino ridotta mobilitazione di risorse economiche ed organizzative. La necessità di ideare e realizzare ‘in corsa’, profittando di finestre di disponibilità ristrette, a mio avviso consiglierà di accorciare per quanto possibile la catena organizzativa che corre dai committenti ed organizzatori al pubblico: non c’è spazio per apparati promozionali troppo ingombranti e costosi. Detto altrimenti: bisogna tornare in parte allo spontaneismo garibaldino degli anni ’70, alla pubblicità per passaparola o per canali informali (una volta tanto i ‘social’ serviranno a qualcosa di utile), riservando gli inevitabili tagli ai ‘lustrini’.
Anche Houdinì avrebbe avuto i suoi problemi ad organizzare musica ora….
Due consigli ai musicisti. Primo: questo è il momento degli organizzatori, e di quelli veramente bravi , lasciare fare a loro evitando la tentazione dell’autogestione. Infatti, per riuscire a metter in piedi iniziative anche di dimensioni ed ambizioni contenute nel problematico contesto attuale, i promotori dovranno dimostrare inventiva e creatività paragonabili a quelle di Houdini. E questo soprattutto perché sarà determinante il rapporto con gli enti pubblici locali, con i quali ci si dovrà rapportare per ottenere non tanto denari (che non ci saranno), quanto spazi aperti adeguati alla musica ed idonei ad ospitare in sicurezza un pubblico di una certa consistenza e soprattutto il know how logistico/burocratico indispensabile per gestirli.
Secondo: aver ben presente la funzione sociale e comunicativa della musica. Abbiamo passato settimane storditi da fiumi di parole che, pur ambendo a rigorosa oggettività, non hanno fatto che generare crescente disorientamento e conseguente ansia. Ed una volta tanto non si parla solo della solita politica-spettacolo, ma anche di una certa scienza formato talk show. La musica, e soprattutto una ancora programmaticamente creativa come il jazz, ha la grande responsabilità di rivolgersi al pubblico per far emergere, per dare una forma consapevole e percepibile a tanti stati d’animo che si agitano oscuramente nei sottoscala dell’inconscio collettivo, portandoci a vivere in una sorta di ‘pianeta parallelo’ dove le apparenze sono quelle di prima, ma le logiche e dinamiche sottostanti sono totalmente diverse ed indecifrabili. Molte settimane sono trascorse nel silenzio e nell’isolamento, senz’altro ci sarà stata l’occasione di riflettere, saranno state stimolate urgenze espressive e ci sarà stato il tempo di dargli compiuta forma. Nelle prossime settimane la musica dovrà dimostrare di esser importante ed essenziale, come l’aria, l’acqua, il cibo. Sarà necessario salire sul palco con una forte e determinata volontà di comunicare e coinvolgere, anche il pubblico meno smaliziato ed acculturato. Non è il momento di ‘opere aperte’, di ‘prove sul palco’ programmaticamente aleatorie ed incompiute, di sperimentalismi all’insegna del ‘chi mi ama mi segua’: la musica deve saper trovare le parole per i sentimenti del tempo che ancora non ne hanno, deve riuscire là dove quasi tutti gli altri hanno fallito. Solo così otterrà il riconoscimento sociale che è la miglior garanzia per la sua sopravvivenza e, soprattutto, per la sua rinascita. Milton56
Del Progetto Hegel vi avevamo parlato giorni fa : questo estro e questa inventiva devono uscire allo scoperto anche nelle piazze….