CONSIDERAZIONI DI UN IMPOLITICO – ICONOCLASTI

Un film magico in cui convivono tanti scatti con una magnifica colonna sonora a firma di Herbie Hancock

“Si avvertono i fotografi accreditati che sarà consentito scattare solo nei primi dieci minuti del concerto”. “Si prega il pubblico di non utilizzare i cellulari per foto e riprese video”. Sono frasi che ormai fanno parte del rituale di apertura dei concerti jazz; in alcuni casi sono seguite da minacce più o meno vaghe sulla possibile sospensione del concerto in presenza di specifiche clausole contrattuali richeste dagli artisti. 

Dennis Stock, il jazz dalla platea. Un controluce da sogno….

L’origine di questa crociata contro la fotografia nel jazz può essere forse ravvisata nel malvezzo di parte del pubblico di scattare foto col flash dalla platea: su questo non c’è discussione, si tratta di un un’abitudine fastidiosa per i musicisti, i piccoli flash  forano il buio della platea ed arrivano al palco con effetti obiettivamente disturbanti e distraenti. Mi sono spesso chiesto perché non intervenire sul problema in modo più persuasivo : basterebbe convocare sul palco un fotografo professionista per far presente che il flash del cellulare non serve assolutamente a nulla nello scattare a distanza di decine di metri dal soggetto, avendo il medesimo flash una miserabile portata forse neanche di mezzo metro. Cioè quella giusta solo per arrivare negli occhi degli spettatori vicini (con seguito di comprensibili reazioni e tensioni). Su questo non c’è discussione possibile, anche alla luce del fatto che la quasi totalità di queste foto (tra l’altro in gran parte ‘inventate’ dai software  dei cellulari) non verranno poi nemmeno mai riviste (come tante altre che intasano la memoria dei dispositivi).

William Claxton: il jazz giù dal palco, in strada

Ma torniamo ai fotografi professionisti. Per loro non corrono buoni tempi: praticamente nessun media professionale copre il jazz e quindi la richiesta di foto di qualità dei concerti è pressoché inesistente. Comprendo che comunque anche per un professionista che si dedichi ad altri filoni di attività il jazz rimanga un soggetto fotografico assolutamente seducente, tale da consentire di collezionare scatti che ben possono figurare in mostre personali  volte a consolidare la propria fama e la propria reputazione.

Francis Wolff:  uno sguardo caravaggesco nelle tenebre di Englewood Cliffs, il mitico studio di Rudy Van Gelder

Forse va anche notata una certa larghezza nel concedere gli accrediti: è legittimo il sospetto che molti dei fotografi che si aggirano nelle platee dei concerti jazz siano più che altro degli amatori avanzati che in virtù di relazioni e aderenze con l’organizzazione riescono a strappare il permesso di fotografare a distanza ravvicinata. Su questa manica larga nel rilascio dei pass forse sarebbe opportuno fare qualche riflessione: gli stessi devono essere concessi a coloro che con la macchina fotografica lavorano e che comunque con la qualità della loro opera siano in grado di dare all’evento una certa risonanza e un’adeguata documentazione pubblica.

Ma torniamo a questi ultimi, i fotografi seri.  All’origine della crociata contro la fotografia va facilmente collocato il Jarrett dei degli ultimi anni: non ho remore dire che la sua fobia verso i fotografi rientrava in una serie più ampia e diversificata di pose divistiche di cui sinceramente non si ha nessuna nostalgia ora che si è allontanato dalle scene. Il problema è che questo atteggiamento ha in qualche modo fatto scuola: ad alcuni musicisti che aspirano al rango di star l’intimidazione verso i fotografi sembra quasi una sorta di necessario status symbol.

Roberto Polillo: un maestro della messa a fuoco selettiva

Devo dire che questo atteggiamento mi infastidisce non poco, creandomi parecchie perplessità. Sono del parere che tra jazz e fotografia sussista un legame profondo, direi pressoché indissolubile. Il jazz è anche gesto e nulla come una esperta e creativa fotografia di azione può conservare e trasmettere questa fisicità, che spesso fa parte integrante ed imprescindibile della figura di molti musicisti. Ciascun appassionato ha un album mentale in cui figurano celebri immagini che rappresentano molti grandi jazzisti alla stessa stregua delle note: una associazione di idee indissolubile, alcuni scatti possono essere definiti senza tema di retorica veramente iconici e non di rado sono più rivelatori ed illuminanti di pagine e pagine di saggistica musicologica. Intendiamoci: qui stiamo parlando della fotografia che si fa sul palco, quella che coglie il musicista nel suo momento creativo, non quella che mira a costruire un personaggio da rotocalco che oggi si sta diffondendo sempre più. Queste foto in posa, attentamente messe in scena con tanto di mises studiate e complementi d’arredo, sono tutt’altro discorso.

Giuseppe Pino: Roy Ayers 1969

Certamente il fotografo che si muove in un teatro o in un club alla ricerca dell’inquadratura migliore spesso qualche disturbo lo arreca, ma è solo questione di tatto e sensibilità non violare la concentrazione degli ascoltatori. Quanto ai musicisti, lo scrocchio degli specchi delle vecchie reflex può spesso risultare di disturbo  in momenti di grande rarefazione sonora, frequenti nei concerti di oggi; ma la tecnologia di oggi offre rimedi a questo, sono già state inventate le moderne camere mirrorless che non presentano il problema di specchietti che sbattono o di otturatori troppo rumorosi. I veri professionisti che a buon diritto si sentono parte del mondo del jazz certamente non saranno insensibili a queste riflessioni.

Carlo Verri. Art Pepper 1980, finalmente approdato alla ‘straight life’. Ma era l’ultimo giro di giostra….

Abbiamo ammesso che i media attuali riservano pochissimo spazio al jazz e quindi c’è poca domanda di immagini dal palco di di musicisti in azione: e sia, ma ciò non toglie che esiste anche una fotografia che salva la memoria storica dei momenti e dei personaggi e per questo è un buon motivo di usare un po’ di tolleranza nei confronti dei veri fotografi di cui sopra, quelli che costruiscono la memoria di una musica così volatile e fuggevole.

Roberto Masotti, Perugia 1976: senza foto così, chi mai crederebbe che allora il jazz in Italia sia stato una cosa simile? A proposito, nell’onnisciente iconografia web c’è una evidente ed estesa zona d’ombra sui nostri anni ’70 della musica: ne vogliamo inaugurare un’altra? 😉

Soprattutto in una scena così multiforme e complessa come quella di oggi sarebbe un peccato imperdonabile quello di far calare il buio di una censura delle immagini, soprattutto se a motivarlo fossero solo vezzi divistici del tutto estranei alla storia di questa musica, che in passato ha trionfato su condizionamenti ambientali ben più seri di un click di fotocamera. La fatwe contro le immagini sacrileghe lasciamole ai fondamentalisti di ogni risma e credo, che già affollano in ogni dove il nostro minaccioso presente. Milton56

Il rullino conteso ormai è stato rubato. Ma della misteriosa foto è rimasta una piccola stampa di prova. David Hemmings la rifotografa e la espande in una serie di ingrandimenti sempre più grandi…. e sempre più sgranati: assomigliano sempre più ai quadri astratti dell’amico pittore. Ma alla fine la verità nascosta appare d’improvviso… Sequenza emozionante che Herbie Hancock racconta così:

…. e se vi è piaciuta, qui c’è il resto…. formazione un poco nebulosa, come quella di molte colonne sonore anche famose: ma quasi sicuramente sono della partita Freddie Hubbard, Jim Hall e Joe Henderson….

1 Comments

  1. Prima facevano la storia del jazz, oggi le fotografie sono solo quelle dei cellulari, fatte senza cura (tanto devono esprimere il concetto dell’Io c’ero) e lasciate morire lì. Ormai niente deve durare, tutto va avanti, con buona pace dei fotografi di mestiere. Davvero una grande perdita. Grazie del tuo articolo.

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