Dal Vostro Infiltrato Speciale a Perugia.
Ho contratto con Marquis Hill un debito sin dal novembre dell’anno scorso, quando lo ho ascoltato al suo esordio italiano nell’ambito di JazzMi. Non appena ho visto emergere il suo nome nel cartellone della grande kermesse di Umbria Jazz, senza alcuna esitazione ho affrontato una trasferta di più 500km per riascoltarlo al Teatro Morlacchi nel cuore della notte: collocazione che definire sconsiderata è poco.
Avevo il dubbio che quello di novembre fosse un colpo di fulmine passeggero: era necessaria una controprova. Invece è stato tutto diverso: è stato meglio.
Ancora una volta Hill sale sul palco con una formazione completamente rivoluzionata rispetto a quella annunziata sul suo sito personale, difficile trovare informazioni su queste quisquiglie su quello del Festival. Non si presenta un quintetto, bensì un sestetto. Manca – ahimè – l’annunziato Makaia McCraven, ma siamo largamente compensati dall’imprevista apparizione di Joel Ross, che dà una bella prova di cameratismo a beneficio del suo ex leader proprio alla vigilia del suo impegnativo debutto italiano del pomeriggio: mi piace molto, testimonia della compattezza dell’ humus musicale in cui entrambi affondano le radici. Un humus che continua a rivelarci talenti per nulla noti (per lo meno alle nostre latitudini), ma sorprendenti per maturità individuale ed integrazione nel collettivo in cui gravitano.
L’eccellente “Modern Flows Vol.2”. L’unico difetto di Marquis Hill: non curare adeguatamente la distribuzione dei propri lavori. Alle illusioni sul circuito indipendente purtroppo si pagano scotti elevati in termini di apprezzamento da un pubblico ampio
Il gruppo si mantiene fedele al repertorio già noto sia grazie al concerto milanese che all’inafferrabile album “Modern Flows Vol.2” che vi raccomando caldamente (si può ascoltare QUI): sarebbe stato sciocco mandare in soffitta temi molto ben scritti, e di grande efficacia comunicativa: molti ti s’installano in testa dopo un paio di ascolti e non ti lasciano più. E’ però risultato diverso il taglio interpretativo: dalla sofisticata scorrevolezza delle performances milanese e discografica, si passa ad una maggiore rarefazione ed astrattezza, che imprime ai materiali un respiro sensibilmente diverso.
Ancora una volta, emergono con tutta evidenza le notevoli doti di leader di Hill, che alla testa di un organico di una certa complessità, riesce ad imprimergli un’omogeneità ed una fluidità che fanno dimenticare totalmente il suo assemblaggio ‘sul campo’. Ancora una volta risulta ammirevole l’intesa tra la tromba di Hill ed il sax alto di Patrik Bartley, intesa che si traduce in unisoni impeccabili con un perfetto amalgama dei toni. Il Marquis Hill solista spicca nettamente tra i molti suoi colleghi trombettisti di valore emersi negli ultimi anni: la sua predilezione per il registro medio e tempi non molto sostenuti portano in primo piano un suono ed un fraseggio perfettamente controllati che già ora definiscono uno stile di grande personalità ed originalità, le cui principali note distintive sono una elegante sobrietà ed economia di mezzi.
La vera sorpresa è stato il sax alto di Bartley, irruente e pieno di slancio negli assoli, caratterizzato a tratti da qualche asprezza e ruvidità che personalmente mi ha rammentato il primo Jackie McLean. Queste sfumature hanno contribuito alla percepibile differenza rispetto alla pur notevole performance milanese che vedeva all’ancia un più diafano e levigato Logan Richardson.
Altro pezzo pregiato della band è stato il batterista Pinson, che ha assicurato una propulsione febbrile ed incessante nei passaggi d’assieme, mostrando un’invidiabile controllo del suono e della dinamica: negli assoli, viceversa, la sua energia liberata ha riempito la scena entusiasmando il pubblico a più riprese.
Ed il fedele Joel Ross? Nonostante si tratti ormai di un brillante leader in proprio (lo si sarebbe visto nel pomeriggio successivo), anche Ross si è messo completamente a disposizione del gruppo: ciò non toglie che nei frequenti momenti solistici è emerso di prepotenza il fraseggio incisivo e carico di adrenalina, il timbro saturo e scintillante e quell’inconfondibile approccio ‘percussionistico’ al vibrafono che abbiamo già imparato a conoscere. Il distacco da un’intera linea evolutiva del vibrafono salta agli occhi.
Altre incondizionate menzioni di merito spettano al pianista King ed al bassista Hunt, che dopo un intenso lavoro ‘tra le quinte’ sono stati messi in evidenza dal leader con momenti solistici di grande intensità.
Oltre all’impeccabile coesione di gruppo ed ad un interplay immune da qualsiasi sbavatura od espediente routinier, è risultata evidente la curata impaginazione del concerto, che si è concluso dopo quasi due ore su di un diabolico riff in crescendo che però non era certo fatto per mandare a letto tranquillo lo sparso, ma entusiasta pubblico popolato giovani di cui vi ho parlato QUI . Grande impegno del leader e dei suoi, che evidentemente tenevano molto alla ribalta di Perugia: mi sembra difficile dire altrettanto dell’organizzazione, che dovrebbe ricavare molti motivi di riflessione soprattutto dalla calda accoglienza riservata da un pubblico giovane e poco smaliziato ad una musica invece sofisticata ed autenticamente innovativa. Ma qui siamo gufi disfattisti, si sa….. Stay tuned, l’infiltrazione continua…Milton56
Marquis Hill, tromba
Patrik Bartley, sax alto
Joel Ross, vibrafono
Jeremiah Hunt, basso
Jonathan Pinson, batteria
Michael King, piano
Perugia, Umbria Jazz, Teatro Morlacchi, 17 luglio 2019, mezzanotte
Un Blacktet a ranghi ridotti e diversa configurazione, in mood alquanto rilassato…. Nella notte di Perugia la temperatura era molto più elevata. Attenzione alla coda di Hill, che insolitamente suona con la sordina
bravissimo il vibrafonista…
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…. vibrafonista che nella notte perugina ha intessuto un notevole duetto con il batterista Pinson, rivelando così i suoi trascorsi dietro piatti e tamburi. Ross è poi risalito sul palco del Morlacchi il pomeriggio successivo (dopo nemmeno mezza giornata… ) alla testa del suo gruppo. E qui si è capito perchè la Blue Note di Don Was ha scritturato su due piedi un leader di soli 23 anni…. abbiate pazienza, arriva anche questa cronaca (caldo equatoriale permettendo). Milton56
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