Archie, il bel compleanno di uno zio impenitente

Da poco ha compiuto 83 anni. Un’età quasi improbabile, per quelli che lo hanno conosciuto come me nei momenti più infuocati della sua lunga e combattuta carriera.

Ed invece Archie Shepp c’è arrivato, nonostante tensioni e contrasti, spesso non di poco conto: nel suo diario di bordo figura anche a cavallo dei primi anni ’70 un’improvviso viaggio in Algeria (che all’epoca stava in relazione con gi Stati Uniti più o meno quanto la Corea del Nord di oggi), che sembrò quasi una fuga dall’America del massacro di Attica. Anche oggi il nostro è ormai un parigino acquisito: una sua recente data al Kennedy Center di New York venne presentata da un emozionato e quasi incredulo Jason Moran come l’apparizione di un revenant.
Eh sì, perché Archie è ancora sulla breccia, ad onta dell’impegno fisico richiesto dai suoi strumenti, il sax tenore e soprattutto l’infido ed indocile soprano. Suonati nel suo stile tagliente e corposo, con la sontuosa e contrastata tavolozza di timbri degna di un Klimt, poi….

Invece di compiaciuta e meritata consacrazione senatoriale, pur da esule in terra straniera, cede ancora alla tentazione di un’avventura: dopo molti tentativi il nipote rapper Raw Poetic (Jason Moore) lo coinvolge finalmente in una sessione infuocata di musica e spoken word… è un sì che viene dopo una lunga attesa, e parte dallo stesso Archie: “Ora siete pronti”, sentenzia dopo aver ascoltato uno degli ultimi lavori di Damu The Fudgemunk (Earl Davis) e di Raw Poetic.

Nasce così ‘Ocean Bridges’, un’album che per ora è reperibile solo in formato digitale sul solito Bandcamp

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Zio e nipote, una relazione sempre ‘carismatica’: Raw Poetic (quello in T-shirt….) ed Archie Shepp (quello in impeccabile giacca e cravatta….)

Quello tra zii e nipoti è quasi sempre un rapporto particolare, una relazione ‘diagonale’ che scarta la conflittualità e l’autoritarismo di quella ‘verticale’ padre -figlio e vive invece di complicità ed affinità elettiva. Il jazz non fa eccezione, basti citare il caso di Miles Davis, stimolato e riportato in studio di registrazione dopo anni oscuri di sbandamento e silenzio proprio da un nipote e dai suoi compagni musicisti di hip hop. Alcuni di questi brani di questa singolare sessione rifluirono in ‘The Man with a Horn’, il disco del 1981 che segnò il ritorno sulle scene di Miles.

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Miles 1981: all’Inferno e ritorno….

Ma ritorniamo ad Archie ed ai suoi nipotini ed ai loro ‘ponti sull’Oceano’ (titolo evocativo quanto altri mai…). Sgombriamo il campo da un’equivoco: i ‘nipotini’ che affiancano Zio Archie hanno da tempo doppiato il capo della quarantina. Raw Poetic non ha nulla dello stereotipo del rapper così come diffusosi da noi: niente pose gangsteristiche, niente mises eclatanti ed automatica infilata nella cintura, è un’insegnante nelle scuole primarie. Non a caso negli intermezzi discorsivi che punteggiano la sessione si parla spesso di ‘education’, dei disamore e dell’estraneità delle ultime generazioni di ragazzi neri verso di essa, dei tragici meccanismi escludenti del sistema scolastico americano, della necessità di porre con forza nel dibattito elettorale americano la questione dell’accesso all’istruzione, ‘.. che è necessaria come l’acqua, come l’aria, impensabile farla pagare’, dice pacato, ma fermo lo Shepp che ha trascorso anch’egli anni dietro una cattedra. Parole semplici e dirette, che dovrebbero però far fischiare molte orecchie anche dalle nostre parti.

‘Learning to breathe’, imparare a respirare… a suo modo profetico, no?

L’incontro tra Shepp ed i suoi giovani compagni non avviene né all’insegna di una furbesca strizzatina d’occhio da parte del vecchio leone Archie (l’ultimo ancora nell’arena….), né di un’opportunistico e studiato autoaccreditamento da parte di Damu, Raw Poetic e compagni. E’ l’omogeneità e spontaneità della musica a parlarci: scaturisce dall’atmosfera calda di una jam session rilassata che cresce sotto i nostri occhi ed in cui si passa da un brano all’altro in modo quasi insensibile, senza stacchi da scaletta predeterminata. Intriganti sono gli interludi preparatorii, brevi linee accennate che sembrano preludere ad una gestazione laboriosa, ed invece ecco scattare improvvisi e già compiuti temi di grande incisività ed immediatezza, vedrete che vi troverete senza accorgervene a suonarli a ripetizione per giorni, come è capitato a me (e non mi succedeva da parecchio). La loro circolare ricorrenza aiuta molto a dare compattezza e slancio a tutto l’album, che vanta un’ampia e contrastata palette di colori strumentali (vibrafono, chitarra elettrica, basso, piano elettrico, un altro sax tenore che affianca Shepp), varietà tutt’altro che frequente in questo tipo di produzioni. In questo denso e teso paesaggio strumentale la voce dei sax tenore e soprano di Shepp incombe costante ed ineludibile: anche quando sembra scivolare su di un piano sonoro lievemente arretrato essa risuona come un controcanto propulsivo che sostiene e sospinge le voci dei rappers. L’amalgama con la spoken word è completo, senza suture visibili: stessa urgenza, stesso drive. Non si avverte quella meccanicità e monotonia proprie di molto altro rap, quantomeno ad orecchie poco avvezze. Qui c’è ritmo febbrile, travolgente, elastico: eh sì, spendiamola quella parola che affiora alle labbra, c’è swing, uno swing molto urbano e contemporaneo. E non solo, com’è ovvio, nel tono sontuoso, aspro ma ricco di sfumature dell’indomabile gladiatore Shepp, ma anche nei suoi giovani compagni e nell’incontenibile drumming di Bashi Rose.

Sfogliando l’album di famiglia, ecco apparire quest’ istantanea del 1972: lo Zio Archie ha dei ‘precedenti’….. 

Ma veniamo a quelle che per noi sono le inevitabili spine di questa rosa fiorita nel cemento: essenzialmente la problematica intellegibilità dei testi, che a tratti si intuiscono tutt’altro che banali (volano parole nette e dure come pietre…). Nonostante una pronunzia abbastanza nitida, la torrenzialità ed il travolgente incedere delle voci fanno sentire la mancanza dei testi delle lyrics, un’errore di autoreferenzialità comune un po’ a tutti i musicisti di questa schiera e che purtroppo crea grande difficoltà di approccio al mondo del migliore rap ed hip hop per un pubblico europeo, ed italiano in particolare. L’America è sempre più isola e ripiegata su stessa in questi momenti convulsi, lo si è già detto altrove: ma va anche osservato che così finiscono per diventare moneta corrente facili e deteriori stereotipi mediatici che impediscono di comprendere che il migliore e più genuino rap ed hip hop sono da sempre rami dello stesso grande albero cui appartiene anche il jazz.
Ma fortunatamente l’energia calda e coinvolgente della musica di questa sessione riesce a dimostrarcelo anche al di là delle parole che ci sfuggono: lasciatevi travolgere anche voi, ne vale la pena. Milton56

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