Ho in mente questa immagine. Dopo la presentazione di un libro in un negozio di una grande catena, un affermato jazzista sta “ricevendo” i fans per la firma delle copie, mentre, in disparte, un giornalista del settore attende pazientemente che la fila termini per potere scambiare qualche parola con il musicista. Mi succede di pensare a quell’episodio perché, in conseguenza di qualche vicenda personale di poco conto, mi e’ capitato di recente di chiedermi se sia giusto il modo in cui noi appassionati ci rapportiamo ai creatori della musica che amiamo. Se, in particolare, gli atteggiamenti di riverenza verso i musicisti che ogni giorno si moltiplicano sui social o nelle più svariate occasioni, facciano bene o male alla musica. Cerco di spiegarmi. La recente pandemia ha creato condizioni di sopravvivenza molto difficili per gli artisti, che non sono a mio parere “quelli che ci divertono tanto”, ma rappresentano persone che hanno contribuito, per molti del loro pubblico, alla creazione di un modo di sentire, un insieme di valori e principi, sia morali che estetici, che chiamiamo cultura. Tutti d’accordo a cercare di sostenere quel mondo con ogni mezzo possibile, visto che se non si può viaggiare, suonare dal vivo e produrre musica, tutto ciò è destinato a finire. Vorrei però considerare un’altra, insidiosa, faccia della medaglia. I musicisti sono persone che hanno studiato, e lavorano, più o meno intensamente a seconda della collocazione, nel campo che hanno scelto, facendo ciò che a loro piaceva fin da quando hanno realizzato di avere a disposizione un talento o delle capacità tecniche. Non a tutti è capitato: se allarghiamo lo sguardo ad altri settori, il mondo del lavoro è popolato da persone che casualmente, per seconda, terza, o quarta scelta , o per semplice necessità di sopravvivenza, si sono trovate a svolgere l’attività che hanno tra le mani. Molti rappresentanti di questo mondo costituiscono proprio il pubblico che va ai concerti, fa le foto, spasima per un selfie con un musicista, legge le loro interviste. Per restringere l’obiettivo al campo di interesse di TDJ, rivista “from jazz fans to jazz fans”: spesso cerchiamo di parlare con i musicisti, di descrivere i loro lavori, di dare loro visibilità anche iconografica utilizzando parte della valanga di materiale fotografico che ad ogni concerto viene registrato e la cui destinazione finale ha sempre per me rappresentato un mistero. Ma raramente dai musicisti arriva un riscontro, un segnale che confermi l’appartenenza ad uno stesso “mondo”, forse perché, se famosi, troppo impegnati a selezionare i media pesanti, e, se poco conosciuti, ad auto commiserarsi. Non è che stiamo esagerando con la coltivazione del mito? E’proprio così interessante tutto quello che ha da raccontarci un musicista, per dedicare alle sue parole articoli, riviste o spazi virtuali, sono così essenziali le foto di un batterista o di uno che imbraccia un sassofono? Non sarebbe meglio per tutti fermarsi alla musica, che viene suonata, liberata nell’aria dal vivo, registrata su qualche supporto, e diventa nel tempo, per effetto di circostanze casuali, di scelte o di sensibilità, un pezzo della nostra vita?
C’è l’evento e c’è chi ha creato l’evento. Non vedo contrasto. Gli applausi sono il ritorno del pubblico. Per uno spettacolo, teatrale musicale artistico, che è stato creato. Un artista rimane tale anche senza essere idolatrato. Come sempre il giusto è questione di misura.
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Una riflessione suggestiva, la tua. Mi sono fatta spesso queste domande e, conoscendo tanti musicisti, mi è ancora più difficile darmi una risposta. Perché i musicisti sono al contempo artisti e persone, appunto, e non necessariamente i due aspetti coincidono. La cerco, la risposta, nel parallelo con la letteratura, lo scrivere in generale, che è il mio mondo di riferimento. Un testo sopravvive al suo autore ed è cosa “altra” da lui, ha una sua autonomia: la reazione che suscita nel lettore, le emozioni, i pensieri, gli stimoli non necessariamente coincidono con quelli dell’autore, né sono uguali per tutti e nel tempo. Ma sono tutti legittimi, proprio perché nascono da quel testo. E questa è l’arte. La vita è un’altra cosa.
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Credo che la riflessione finale di Cristiana riassuma perfettamente la questione. Noi, nel senso di noi 5 appassionati che ci divertiamo a scrivere di musica, dobbiamo essere in grado di scindere arte e persona. Non credo che, per rimanere nel nostro ambito musicale, sarebbe stato del tutto piacevole conoscere personalmente Miles o Stan Getz, Chet Baker o Keith Jarrett. Grandi musicisti e pessimi caratteri o enormi problemi di tossicodipendenza che ne facevano pessimi interlocutori. Per mio carattere, schivo e poco propenso a mettermi sotto il riflettore, ho conosciuto pochissimi musicisti, ancor meno de visu, e quasi sempre su iniziativa non mia. Ma in fondo, che cosa cambia a parte la piccola soddisfazione personale o magari l’inizio di una piacevole corrispondenza, se il musicista recensito non da in qualche modo un feedback? E poi, quando succede, guarda caso si tratta sempre di jazzisti mai nei titoli principali dei telegiornali o in prima pagina sul Corriere. Preferisco, a mio modo di vedere, il feedback del lettore, anche critico quando e se il caso lo richiede. In fondo, noi scriviamo per loro e solo in secondo ordine per il musicista. Lo dice il nostro stesso motto: from jazzfans to jazzfans che tra l’altro fa piazza pulita di possibili malintesi: non siamo giornalisti o critici musicali, tantomeno musicologi, ma semplici appassionati che parlano (e scrivono) a loro pari.
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Questo è anche il mio approccio all’ascolto. L’unico che mi serve quando mi accosto alla musica. Tutto il resto occupa una minima parte della mia attenzione, quella necessaria a porgere quella musica anche agli altri, tutte le volte che sento il bisogno di condividerla. Poche ed essenziali informazioni introduttive seguite da ben altro. Preferisco appuntarmi i passaggi, i momenti musicali che mi emozionano o che mi rimandano ad altro. Questo è il tipo confronto e condivisione che amo: from jazzfans to jazzfans.
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