A New York marzo è un tempo particolare. La primavera la si annusa tra i viali di Central Park, dalle facce stupite e stuporose che le vetrine riflettono quando la luce del giorno le illumina dribblando i grattacieli. Vien voglia di camminare, di vedere qualcuno. Lady Day, da un po’, si ritrovava in un bar, il Charlie’s, dalle parti della 52esima, con Lester Young. Se ne stavano al bancone, scambiandosi occhiate e ricordi, come due amanti silenziosi e complici. Lo sapevano, sì che lo sapevano: non restava molto da improvvisare, erano le ultime battute di un turnaround che proprio non voleva saperne di durare ancora un po’. Lady Day, almeno, aveva qualcosa cui pensare: il nuovo disco. Voleva che fosse diverso dagli altri, diverso come può esserlo un canto del cigno. Forse chiese consiglio a Prez, forse si limitò solo a guardarlo mentre lui le sorrideva. In fondo, un pezzo valeva l’altro: bastava soltanto star bene in equilibrio sullo sgabello. E cantare come aveva sempre fatto.
Quando entra al Metropolitan Studio, il tre marzo, Billie ha le idee chiare. Ha deciso con cura il repertorio, seguendo la sua antica norma: «Quando canto una canzone deve significare qualcosa per me, qualcosa che ho dovuto vivere. Altrimenti non posso cantarla». Come fu per “Lady in Satin”, la scelta cade su brani che non ha mai inciso prima. Vorrei un disco come quelli di Frank Sinatra, aveva chiesto a Ray Ellis. Voleva che suonasse come i dischi di The Voice: quello scintillio degli archi, puri come il tintinnare di un gioiello, e i fiati tirati a lucido. Ci avrebbe pensato lei a rendere quelle canzoni diverse. E l’attacco, All The Way, è miracoloso. Billie prende il tema e lo piega a un sapere profondo e sconosciuto, appoggiandosi sugli archi e galleggiando sul ritornello, intonata e in pieno controllo dei glissati. La seduta continuerà inanellando una piccola e preziosa ghirlanda di gemme: It’s Not For Me To Say, I’ll Never Smile Again (un vecchio successo di Sinatra, che Ellis le drappeggia addosso con l’abilità di un sarto parigino), Just One More Chance, dolorosamente leggiadra, con l’arpa e il glockenspiel a costruire la quinta di un sogno a occhi aperti. Non l’avrebbe avuta un’altra possibilità, Lady Day.
E il giorno successivo, incapace di fantasticare, Billie perde smalto. E speranza. La voce è più scura, trafitta da microscopiche rughe. Lo sgabello, all’improvviso, è diventato scomodo da morire. Fa fatica a tenersi in equilibrio, non riesce a poggiare sulle note, restringe il registro, il vibrato ogni tanto le sfugge. Eppure questa è la voce più bella che sia possibile ascoltare. When It’s Sleepy Time Down South, Don’t Worry About Me, Sometimes I’m Happy, glaciale nel contrasto tra i fantasmi di Billie e la gioia contenuta dell’arrangiamento, You Took Advantage Of Me, sussurrata con quel po’ di forza che le restava, rappresentano la testimonianza più alta, e toccante, di un genio inimitabile.
Fonte: https://www.nazioneindiana.com/2009/04/23/gli-ultimi-giorni-di-lady-day/
Davvero bellissimo!!
"Mi piace""Mi piace"