Che ci si trovi di fronte ad uno strano “oggetto”, lo si percepisce subito. Bastano le prime note della chitarra ed i cori di sottofondo a proiettarci in una Coockooland nella quale la cosa più naturale da aspettarsi è che compaia la voce fragile e spezzata di Robert Wyatt. Cosa che, come molti sapranno, puntualmente avviene. Ma la presenza, in tre brani, dell’artista inglese, non è che una delle molte sorprese di questo secondo capitolo dell’avventura Code Girl. Diretto dalla inafferabile Mary Halvorson, con la medesima line up del precedente (la cantante di origine indiana Amirtha Kidambi; Michael Formanek al basso e Tomas Fujiwara alla batteria) con la sostituzione di Adam O’Farrill per Ambrose Akinmusire alla tromba , ospiti il sassofono di Maria Grand oltre alle corde vocali di Wyatt, “Artlessy falling” è un lavoro meticolosamente costruito intorno alle metriche ed alle scansioni di diverse forme poetiche scelte dalla sua autrice, che ha creato le otto composizioni musicali con stretta attinenza alle liriche, spostandosi fra, o meglio giustapponendo, il jazz, l’improvvisazione ed una forma di art rock che risente di influenze progressive, come di urgenze indie. Uno strano oggetto, appunto, che attira come una calamita per ascolti ripetuti. Durante i quali si verrà proiettati fra gli alberi di limone del primo brano, con alternanza fra le eloquenti frasi della tromba ed il canto di Wyatt su un tempo simil valzer, fino a lasciare protagonista il duetto fra O’Farril e Fujiwara e, quindi, quest’ ultimo in un deciso break percussivo. Si finirà fra le oblique e faticate armonie vocali di “Last minute smears“, bilanciate da una narrativa fluida ed accattivante dei fiati che sfocia in un espressivo solo della tromba. Oppure si subirà l’attacco sonoro heavy della chitarra in “Walls and roses” che contraddice le leggiadre sezioni vocali di Wyatt e di Kidambi. In “Muzzling unwashed” un solo introduttivo puntellato dalle intermittenze elettriche della chitarra nel tipico stile surreale della Halvorson apre la via ad un accidentato percorso melodico tracciato dalle metriche delle liriche, inframezzato da una sezione strumentale centrale affidata alla tromba ed alle percussioni di Fujiwara, essenziali in tutto l’album a garantire una mutevole propulsione a climi sonori così diversi. Wyatt è di nuovo protagonista in “Bigger flames“, il pezzo forse più vicino al suo linguaggio, con la voce che dipana una lenta tela melodica sostenuta ritmicamente dalla chitarra e contrappuntata dai fiati. Si torna poi sulla lunga distanza di circa dieci minuti per “Mexican war streets“, che nelle parti vocali di Amirtha Kidambi alterna oriente ed occidente, in parallelo al dualismo fra struttura e libertà dello sviluppo musicale, mentre “A nearing” esibisce una congerie collettiva dallo spirito free, nella quale emerge con decisione il ruolo del sassofono di Maria Grand.
Fine del viaggio attraverso la title track : un brano folk cantato con perfetta intonazione “macchiato” dalle dissonanze e dagli sbalzi della chitarra di Mary che nella parte finale tende a prendere il sopravvento sulla parte “canonica” per poi deviare verso una struttura armonica definita. Si esce dall’ascolto con un curioso effetto di straniamento ed inafferabilità che riflette, insieme al gradimento, l’impressione generale del visitatore sull’intera opera.
https://maryhalvorson.bandcamp.com/track/the-lemon-trees