Mi sembra di riconoscere il Jazz Village di Fano Jazz by the Sea……
Può sembrare curioso in un momento simile porsi il problema della sostenibilità e dell’impatto ambientale dei festival jazz nel nostro paese. Eppure il problema non è così peregrino. I cultori di cose storiche ricorderanno che uno dei motivi del pluriennale bando dalle piazze perugine dell’Umbria Jazz anni ’70 fu l’inatteso e massiccio afflusso di grandi masse di giovani equipaggiati di solo sacco a pelo e che letteralmente trasformarono le città umbre ospiti in veri camping urbani. Ci scappò anche qualche graffio a monumenti, la ciliegina sulla torta che consentì a furor di popolo (benpensante) di appendere lo scalpo del festival umbro alla loggia del Palazzo dei Priori (che da qualche secolo non conosceva più simili emozioni).

Ora non sono più tempi di Woodstock all’italiana, e men che meno di sagre dell’ascolto gratuito ed occasionale. Molta acqua è passata sotto i ponti anche nel rapporto tra manifestazioni jazzistiche e le comunità ospiti. Tanto per ritornare a Perugia, ricordo che nel 2010 (anno secondo della Grande Depressione 2.0) l’inizio dei saldi estivi venne appositamente posticipato per farlo coincidere con il periodo del festival. Altro ricordo personale: nell’estate del 2019 scontai un bella serata di musica alla Rocca Malatestiana di Fano con la compilazione di un ponderoso e rigorosissimo questionario che alimentò una ricerca dell’Università Bocconi di Milano sugli impatti economici indotti dai festival musicali per i territorii ospiti, poi rifluita in un volume di recente pubblicazione.

Moltissimi festival estivi si vedono affidati ambienti urbani storici di grande suggestione e che molto contribuiscono all’emozione della musica: ci sono piazze di cittadine italiane che sono teatri naturali e sembrano nate apposta per il jazz che ha bisogno di un ambiente raccolto e rilassato che avvicini il più possibile musicisti e pubblico. Una grande opportunità, ma anche una responsabilità: ci sono problemi di gestione di flussi di persone di dimensioni straordinarie per i luoghi, di conseguenti implicazioni sul sistema dei trasporti pubblici, di dimensionamento e calibrazione degli impianti tecnici, di raccolta e smaltimento dei rifiuti ed ora pure di rispetto di standard sempre più complessi e variabili di sicurezza sanitaria. E questo non solo influisce sulla qualità dell’esperienza del pubblico, ma è decisivo ai fini della percezione da parte delle comunità locali delle manifestazioni musicali esclusivamente come opportunità, culturali, sociali e, last but not least, economiche.
In questa forzata pausa di riflessione un nutrito gruppo di festival jazz italiani si è posto il problema in maniera organica, creando una vera e propria rete, Jazz Takes the Green, che si estende praticamente su tutto il territorio nazionale. I partecipanti sono: Ambria Jazz Festival, Bergamo Jazz e Associazione 4.33 (Lombardia), Sile Jazz (Veneto), Parma Jazz Frontiere (Emilia-Romagna), Gezmataz (Liguria), Fano Jazz By The Sea e Risorgimarche (Marche), Empoli Jazz Festival (Toscana), Gezziamoci (Basilicata), Locus Festival e Think Positive (Puglia), Peperoncino Jazz Festival (Calabria), Festivalle dei Templi e Battiati Jazz Festival (Sicilia), Time In Jazz e Musica sulle Bocche (Sardegna).
L’iniziativa non ha affatto carattere platonico, dal momento che anche grazie al coordinamento di I-Jazz le organizzazioni federate hanno dialogato con la Fondazione Ecosistemi diretta da Silvano Falocco, che ha fornito il necessario contributo specialistico per la formulazione di un vero e proprio protocollo di sostenibilità ed impatto ambientale, che ogni manifestazione si impegna ad applicare, ovviamente configurandolo in base alle particolarità di ogni diversa situazione ambientale, anche qui con la consulenza della Fondazione.
Intendiamoci, questa strada era già stata intrapresa da tempo da molti Festival, come hanno rimarcato Corrado Beldì (I-Jazz e Novara Jazz) ed Adriano Pedini (Fano Jazz by The Sea, capofila dell’iniziativa e suo precursore da tempo, testimonianza personale); ma ora tutto assume una dimensione sistematica ed oggettivamente verificabile, tale da richiedere un tangibile riconoscimento al MIBACT in sede di conferimento e dimensionamento dei contributi ministeriali. Esser green e sostenibili è bello e giusto, ma come ogni investimento ha un costo iniziale senza il quale i benefici non si vedono.
Per eventuali approfondimenti, dettagli qui:
Dopo tanto ‘verde’, concludiamo ‘ton sur ton’, come direbbe un arbiter elegantiarum: ‘Blue in Green’, 1959, il seminale trio di Bill Evans, Scott La Faro, Paul Motian…
La storia dei danni provocato dagli “avventori” dell’Umbria Jazz m’hanno riportato alla mente la prima volta che andai al Pistoia blues da ragazzino.
tutti quelli più grandi m’avevano avvertito e scoraggiato (andavo in treno ed ero minorenne) per via del “campo dei tossici”.
pensavo esagerassero, e invece.. c’era pure di peggio.
dopo aver letto l’articolo, penso che quando ritorneremo alla “normalità” me li girerò tutti (spero non solo da spettatore, tra l’altro)
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Andrea, grazie dell’intervento e soprattutto della testimonianza. Hai toccato un punto che richiederebbe molto approfondimento. Da ragazzo degli anni ’70 posso dire di aver visto tutte le fasi del dilagare delle droghe pesanti, sin da quelle più embrionali. A beneficio di chi non c’era, va ricordato che non c’era bisogno di andare ad Umbria Jazz od a Pistoia Blues per vedere il ‘campo dei tossici’, semplicemente ce lo avevi nel giardinetto sotto casa. Per tacere anche delle aule di alcune reputatissime scuole d’elite. Ma allora il ‘campo dei tossici’ era chiaramente visibile e riconoscibile e chi non voleva entrarci imparava a conviverci ed a guardarsene come da altri lati oscuri della vita, soprattutto toccando con mano i prezzi che certe scelte di vita esigevano; scelte tra l’altro quasi sempre definitive ed irreversibili. Tante biografie jazz sono sotto questo profilo dei ‘racconti morali’ esemplari, sia nella rigorosa durezza delle conclusioni, sia nella scomoda memoria di cinismi e complicità che hanno largamente contribuito (a dir poco..) al dilagare del fenomeno. Oggi invece le ‘dipendenze’ sono una specie di ‘continente sommerso’, ma di dimensioni tali che nelle acque di scarico di alcune grandi città italiane sono rilevabili con facilità e chiarezza le tracce del massiccio consumo di ‘sostanze’. Che invece in superficie si mimetizzano (e vorrei dire si integrano….) molto bene….. Situazione di gran lunga più pericolosa ed incontrollabile. Metterla in relazione al mondo della musica, soprattutto della nostra, è ipocrisia tartufesca. Mi ripeto: nella scorsa estate ho frequentato vari festival estivi in cui, a parte la cura dell’organizzazione, ho visto standard di comportamento del pubblico che vorrei molto rivedere nelle strade della mia città (una chimera…). E nonostante ciò, la musica viene mantenuta in un ‘coma farmacologico’ rigoroso ed inesorabile, rigore ed inesorabilità che invece non si applicano ad altri ambiti dove i rischi sono molto più grandi ed evidenti e le c.d. ‘trasgressioni’ apertamente ostentate. Prendiamola come un complimento: evidentemente la musica, soprattutto la ‘nostra’, non è instrumentum regni…. ;-). Però facciamo in modo di farla sopravvivere, come si può, qui ed ora. Milton56
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