Frank Newton è stato un rispettato trombettista dell’era swing, che brillava per un originale uso della sordina che gli valse probabilmente la predilezione da parte di grandi cantanti jazz, in testa Billie Holiday. Incise anche a suo nome con piccoli gruppi, ma già nel 1946 si era appartato dal mondo della musica professionale: un’altra passione gli urgeva, quella della politica. All’alba dell’era maccartista Newton rimaneva un attivo militante del partito comunista americano, impegnato in programmi di educazione musicale per i ragazzi. Una serie di sfortunate vicende personali lo portarono ad una fine precoce nel 1954.
Eppure il nome di Newton sorprendentemente riapparve intorno alla seconda metà degli anni ’50, quando sul ‘New Statesman’, prestigiosa rivista della sinistra intellettuale inglese, comincio’ a comparire una rubrica regolare a firma appunto di tale ‘Francis Newton’. Questo spazio era dedicato alla scena jazzistica inglese, già allora molto vivace e varia: oltre ad approfondite recensioni di concerti tenuti da grandi jazzmen americani di passaggio e dei loro colleghi inglesi in rapida ascesa, spiccavano dettagliate e documentate analisi del mondo che ruotava intorno alla musica afroamericana, sia per quanto concerneva organizzazione e meccanismi dell’industria discografica che per quanto riguardava il background sociale e culturale del suo pubblico. Gli articoli ebbero vasta risonanza internazionale, al punto che un redattore di Down Beat polemizzo’ con alcune valutazioni in esso contenute, argomentando tra l’altro che un inglese poteva avere solo una comprensione molto limitata del jazz, realtà culturale eminentemente americana. Alla rivista pervenne poco dopo una garbata, ma inesorabile replica, in cui con logica stringente e con vasto ricorso a puntuali citazioni documentali, veniva sostanzialmente ridicolizzata la sciovinistica sparata yankee.

A questo punto, il mistero sull’identità di ‘Newton’ cominciò gradualmente a diradarsi. Come era largamente noto nei caffè bohemienne di Soho, si trattava nientedimeno che di Eric Hosbawm, già allora quotatissimo studioso e destinato a diventare negli anni successivi uno dei massimi storici del Ventesimo Secolo, capace di raccogliere l’eredità della scuola francese degli ‘Annales’ (Pirenne, Lefevre e soprattutto Marc Bloch) applicandola alla creazione di grandi affreschi di ‘storia dal basso’ che offrono una rara sintesi delle travolgenti trasformazioni che partono dalla Rivoluzione Industriale ed arrivano sino alla ‘Golden Age’, (da lui collocata tra il 1945 e la fine degli anni ’70, dopo intuiva già un ripiegamento ed un’involuzione che ora tocchiamo con mano…). Il ‘nom de plume’ si spiegava da una parte con la necessità di non avere seccature negli asfittici ambienti accademici in cui lavorava, dall’altra con una radicata abitudine dello studioso ad adottare misure di riserbo intorno alla sua sfera di frequentazioni private, dal momento che sapeva di esser sotto costante sorveglianza da parte dello Mi5 (il controspionaggio inglese) per via della sua dichiarata fede marxista.
Il nostro Eric era un uomo con la perenne, costituzionale vocazione dell’eretico. Anche nelle passioni private come quella profonda e consumante per il jazz, che viceversa era guardato con diffidenza (se non con vera e propria ostilità) dall’ultraortodosso Partito Comunista britannico (oltre che da quasi tutto lo establishment intellettuale di sinistra) che lo riteneva una ‘manifestazione di cultura popolare americanizzata’, preferendogli un revival folk che spesso sapeva ormai di archeologia …. Hosbawm viceversa tirava diritto per la sua strada, mettendo quanto sopra in conto ad ‘ottusità sovietica e puritanesimo fuor di luogo’: il che ovviamente poco giovò ai suoi già problematici rapporti con il predetto partito, rapporti che si raffreddarono ulteriormente negli anni successivi alla luce del legame privilegiato e della stima riservati allo storico inglese dai massimi vertici del Partito Comunista Italiano.

Ma ritorniamo a Francis Newton ed alla sua saggistica sotto copertura. Il materiale di prima mano accumulato grazie all’attività giornalistica e la passione che ci stava dietro erano così grandi che nel 1959 figliarono ‘The Jazz Scene’, un ‘volumetto’ di quasi 500 pagine, che a mio avviso è titolo insostituibile nella biblioteca di ogni serio appassionato di jazz. In Italia si dovette attendere sino al 1982 per averne un’edizione, peraltro molto curata, da parte degli Editori Riuniti (forse qualche copia è ancora reperibile sul mercato dell’usato). Dopo un quarantennio di vuoto, il libro è ricomparso, prima in una ristampa quasi anastatica, e poi l’anno scorso in nuova edizione per i tipi di Mimesis (gliene sia reso merito).

L’Hosbawm jazzofilo però non dismetteva l’abito mentale dello storico professionale, e nella musica di matrice afroamericana intravedeva convintamente un ineguagliabile potenziale di infrangere gli steccati di classe, particolarmente rigidi nella società inglese dell’epoca (non che oggi vada molto meglio). Ecco una sua istantanea del pubblico di un jazz club londinese: ”.. la felice immagine di un tavolo gremito di sassofonisti cresciuti in orfanotrofi caraibici, soldati americani provenienti dai ghetti di Chicago, giornalisti, professori, rappresentanti di commercio e ‘sirene’ (?!?) che disquisiscono accanitamente delle differenze stilistiche tra il jazz della West Coast e quello della East Coast”. In questo potenziale di ‘fluidificazione sociale’ vedeva addirittura un possibile rilievo politico: “ la ‘solidarietà jazzistica’ ha già creato con successo una sottocultura con una sotterranea rete di appassionati”. Voli pindarici di uno studioso capace di immaginose premonizioni? Non proprio, come attesta un recente saggio in argomento (Matt Parker, ‘Subversion through Jazz’….sic!). Su inedite basi documentali infatti emerge che OSS (poi CIA) ed il citato Mi5 si appassionavano anch’essi alla prospettiva (a loro modo): gli americani al punto di reclutare informatori tra imberbi batteristi della scena londinese, gli inglesi invece dedicandosi alla compilazione di ponderosi ed a tratti grotteschi rapporti in cui si ipotizzava una sospetta triangolazione tra il nostro Hosbawm, il discografico Dennis Preston ed il sassofonista giamaicano Joe Harriott.
Ma chi sono gli altri due vertici di questa misteriosa cospirazione? Preston fu un brillante cane sciolto dell’impresariato e della produzione discografica jazzistici, che spregiudicatamente finanziava con musichette di facile smercio una sua vera e propria scuderia di talenti molto anticonvenzionali. Si scoprì molto dopo che era cugino primo di Hosbawm, a cui inoculò sin dall’adolescenza la passione jazzistica, mentre l’altro ricambiò iniziandolo ad una militanza politica che portò Preston ad impegnarsi attivamente nel movimento antirazzista sorto dopo i disordini di Notting Hill del 1958. Posizione coerente e consequenziale con il fatto che molte delle numerose scoperte di Preston provenivano dall’ambiente musicale ‘West Indian’ creatosi a Londra sin dagli anni ’50.
Il misconosciuto Joe Harriott era forse il più brillante campione della ‘scuderia’ di Preston. E’ lui appunto il ‘sassofonista cresciuto in un noto orfanotrofio giamaicano’, le cui suore allevarono un bel numero di talenti musicali destinati ad agitare anni dopo la scena inglese. Infatti a distanza di tanti anni appare evidente ed innegabile il ruolo di Harriott come originale precursore di quella fioritura musicale inglese che per limitarsi al solo jazz produsse talenti del calibro di John McLaughlin, di Kenny Wheeler, di Dave Holland, nonché ‘laboratori’ come quello ben noto di Canterbury (e l’onda lunga arriva ancora oggi…). Il citato saggio della Parker scommette su di una stretta frequentazione personale tra Harriott e lo stesso Hosbawm, peraltro di non facile prova, salvo affidarsi senza riserve alle elucubrazioni talvolta paranoiche degli spioni dell’Mi5 (che nel frattempo seguivano più distrattamente l’andirivieni di un’intraprendente Miss Christine Keeler tra la camera da letto del Ministro della Difesa Profumo e quella dell’addetto militare dell’ambasciata sovietica: una banalità che portò alle dimissioni dell’intero governo di Sua Maestà). A quanto sembra, il libro di Ms. Parker restituisce comunque una vivida ed affascinante visione di scorcio di una scena musicale di eccezionale vitalità, percorsa dallo scisma tra tradizionalisti che predicavano un ritorno penitenziale alla purezza di New Orleans ed i determinati boppers che si identificavano nella musica adrenalinica di Tubby Hayes. Scisma ulteriormente complicato dall’eresia proto-free venuta dai Caraibi insieme ad Harriott ed al pugno di suoi seguaci.
Nel consigliare caldamente l’ascolto delle clips incluse in questo pezzo (che spero siano solo il biglietto per un vostro viaggio a più ampio raggio in questo mondo musicale ed intellettuale di grande fascino), finisco con l’annotazione che forse l’ ‘Internazionale del Jazz’ non era solo un sogno di D’Andrea. Ed anche un pochino nostro…. Milton56
Siamo ancora nella Londra del 1960: Harriot ed Ornette, ‘vite parallele’?