Reijseger in azione, l’Olanda jazzistica non passa mai inosservata…….occhio alle corde….
All’inizio di questo viaggio da turista in un paesaggio musicale normalmente lontano dalle mie inclinazioni, ho titolato lo ‘strumento totale’, intravedendo da subito uno dei più evidenti fil rouge del festival: è tema denso di molte implicazioni nel panorama odierno del jazz e delle musiche improvvisate.
Le performances in solitudine di Ernst Reijseger al violoncello e di John Edwards al contrabbasso sono state lo svolgimento più classico ed esplicito di questa tematica serpeggiante. Di qui l’idea un po’ balzana di dedicare loro una sorta di recensione ‘incrociata’: si tratta infatti di due esperienze di ascolto senz’altro con iniziali punti di contatto, ma che nel loro dispiegarsi a mio avviso hanno condotto ad esiti alquanto diversi.
Violoncello e contrabbasso sono strumenti apparentati, il primo con apparizioni rade – ma spesso memorabili – sull’orizzonte jazzistico, mentre il secondo è uno dei suoi pilastri fondamentali, anche se raramente compare in una dimensione puramente solistica.
Siccome queste di cui stiamo parlando sono ‘musiche sensibili al contesto’, come avrebbero detto gli informatici di una volta, iniziamo dagli ambienti in cui le due performances si sono inserite.
Per Reijseger si è trattato degli spazi monumentali della basilica di S.Gaudenzio, strutturalmente ostili ad uno strumento solista relativamente esile in questo contesto (del resto le chiese barocche italiane sono amiche solo della musica degli organi che ospitano, è un fatto ideologico). Ma l’olandese ha abilmente duellato con questi vuoti oceanici e le loro risonanze, mirando a domarli ed ad integrarli nella sua musica che ne guadagna in spazialità ed ampiezza di respiro, facendone risaltare l’intenso, proclamato lirismo. Nella prima parte del set ha dominato un’intonazione quasi liturgica, appoggiata da un suono all’archetto che tendeva ad una diafana sottigliezza, che con un calibrato dosaggio delle dinamiche sembrava deliberatamente puntare ad una certa cifra ‘fantasmatica’. Inevitabilmente il pensiero corre alle collaborazioni del violoncellista con il regista Werner Herzog per alcuni documentari ‘d’autore’ centrati su una visione apocalittica di situazioni di degrado ambientale. La ‘scenicità’ dell’approccio di Reijseger è stata poi evidenziata dalla sua volontà di impadronirsi del vastissimo spazio acustico che lo assediava mediante una serie di spostamenti in molti degli angoli laterali della navata centrale, di cui ha sperimentato le potenzialità sonore con un utilizzo anticonvenzionale del violoncello, ora percosso, ora suonato a mezz’aria come una chitarra. Insomma il violoncello Davide, se non ha potuto del tutto sconfiggere gli spazi ostili della cattedrale, quantomeno si può dire che sia riuscito a balzare in groppa a questo Golia sonoro.
Tutt’altro discorso per Edwards. Innanzitutto la Chiesa del Carmine è un ambiente decisamente più raccolto (ha una compatta pianta a croce latina, bracci di lunghezza eguale), anche se pure esso ricco di volumi notevoli, ma prevalentemente sviluppati in altezza. Nessuna timidezza, qui: Edwards è bassista vigoroso e possente, che ha sempre spiccato per queste caratteristiche nei contesti jazzistici più diversi, dall’avanguardia più radicale all’incantatorio ethiojazz di Mulatu Astatke. L’inglese è quindi risultato molto più concentrato sull’energia dell’espressione, generando una musica decisamente più ‘materica’ e tempestosa, frutto di una relazione con lo strumento veramente viscerale, quasi simbiotica. Non a caso Edwards non ha sentito affatto il bisogno di ricorrere al sostegno di una base elettronica preregistrata, impiegata invece da Reijseger per dare maggior respiro alla sua musica nella parte iniziale del suo concerto: di drammaticità e di corpo ce ne era già da vendere, il suono veniva letteralmente ’strappato’ allo strumento, sfruttato in tutta la sua potenza e profondità. Se con Reijseger la posizione dell’ascoltatore era spesso quella di uno spettatore sedotto da un rituale ipnotico, con Edwards si è vissuta un’esperienza di convolgimento totale, quasi carnale: sarà stato per la distanza ravvicinata, sarà stato per un più diretto transfert di energia, ma la temperatura emotiva e soprattutto l’impatto della performance del bassista hanno incontrato una risposta del pubblico più calda ed intensa di quella ‘contemplativa’ (pur se affascinata) riservata al violoncellista olandese. Stupisce non poco che al termine di un set da quasi 40 minuti di grande impegno, anche fisico, Edwards sia passato dopo nemmeno un’ora al ruolo di bassista in una big band da 12 elementi, un tour de force che richiede energia e concentrazione ai massimi livelli.
Ma questa è storia della prossima puntata (continua) . Milton56