L’ estate si sa offre sempre spunti di riflessione profondi e serissimi. Parlare della qualità dei festival jazz italiani è sicuramente prassi minore e offensiva rispetto ai veri problemi del paese quali il disfacimento morale e politico dei 5 Stelle, la manfrina dei calciatori azzurri che non si inginocchiano per esclusivi problemi di artrosi o, guardando allo scacchiere internazionale, la doverosa preoccupazione per l’emaciato ma amatissimo dittatore nord coreano.
Ma scusatemi se insisto, leggendo i cartelloni dei festival in corso o annunciati non posso fare a meno di qualche spunto di riflessione. Due quarti dei programmi sono all’insegna dei soliti abusatissimi nomi conditi qua e là da frizzi e (gua)lazzi. Denotano due problemi notevoli: la inadeguatezza sia dei cosiddetti direttori artistici che del pubblico di riferimento, ahimè purtroppo maggioritario nella stessa misura in cui è di bocca buona e pronto a credere alle “eccellenze italiane”.
Poi ci sono i festival che non mancano di dare un colpo alla botte e l’ altro al cerchio, per cui si trovano fior di jazzisti a fianco di sfiatati cantanti abbondantemente oltre la via del tramonto, in un immaginario Monopoli sarebbero parcheggiati in Viale delle Rimembranze. In nome di fantomatiche aperture mentali si può passare da Brad Mehldau alla M’annoia con la stessa nonchalance con cui si pasteggia l’aragosta col Tavernello. Guai a protestare, seppur educatamente. Immediatamente verreste bollati come puristi demoplutogiudaicomassonicoborghesi.
Infine l’ultimo quarto spetta a coloro che con dedizione e salti mortali col budget riescono ad imbastire un cartellone di jazz senza figuranti ne ballerine. Purtroppo sono la minoranza, così come il pubblico che vi accorre. Ne abbiamo preso atto da molto tempo. Qualcuno si augurava che il dopo covid, almeno da un punto di vista di prospettiva musicale, sarebbe stato diverso, aperto al nuovo e alla qualità. I soliti talebani. Che se ne tornino in Afghanistan.

Descrizione accurata e spiritosa del panorama festivaliero nazionale.
Per l’ultimo quarto, segnalo il Gezmataz Festival che si tiene la settimana prossima a Genova sotto la direzione artistica di Marco Tindiglia.
Fra gli altri, il programma prevede Avishai Cohen con il suo gruppo e il John Patitucci Trio con Chris Potter e Brian Blade.
Peccato che se non si è di Genova o degli immediati dintorni, purtroppo a causa dei continui lavori alla già obsoleta rete stradale e autostradale, non è per nulla agevole recarvisi.
Però, può essere l’occasione per fermarsi qualche giorno e vedere tante cose interessanti sul piano extramusicale.
Sui Gualazzi e company, meglio soprassedere.
Se quei nomi servissero per poi ascoltare e approfondire altro, bene… Ma generalmente non succede e ci si ferma ai Gualazzi ritenendo di aver visto un concerto jazz.
In fin dei conti, non è differente da quelli che vanno a sentire il Volo pensando che si tratti di lirica.
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