Dopo quello a Jaco Pastorius, un altro omaggio ha dominato il cartellone del TJF venerdì 25 Giugno. Accarezzato dai direttori artistici Diego Borotti e Giorgio Li Calzi già dall’anno scorso, ed ora finalmente realizzato, sul palco. Si trattava della band del sassofonista statunitense Donny Mc Caslin, con Tim Lefevre al basso, Jason Lindner alle tastiere e Nate Wood alla batteria con l’ospite Gail Ann Dorsey. Tranne Wood, un trio di musicisti che ha preso parte alle registrazioni di “Black Star”ultimo atto di Bowie prima della scomparsa, e la bassista della sua band per diversi anni. Ecco giustificato il titolo di “Bowie’s blackstar ” per lo show, prima uscita live da diverso tempo per un McCaslin emozionato ed entusiasta di proporre la sua musica davanti ad una platea altrettanto emotivamente coinvolta. Il sassofonista ha uno stile che accentua la componente emotiva delle composizioni, privilegiando note lunghe al sax e la creazione di atmosfere basate su climax creati per accumuli progressivi. Può piacere o meno, ma non si può fare a meno di sottolineare i punti di forza della band nel tastierista Lindner, un vero inventore dell’elettronica, uno che sa tirare fuori un ritmo dispari del reggae nel bel mezzo di una dilatata ballad, o creare una melodia di sapore balcanico da un’improvvisazione partita da premesse completamente diverse. E poi il folletto Nate Wood, che assicura, dietro al suo set di tamburi, una ritmica effervescente e ricca di inventiva. Il concerto ha ripercorso diversi episodi di “Blow” l’album del quartetto che Mc Caslin dichiara profondamente influenzato dallo spirito di David Bowie, inclusa la splendida “Eye of the beholder” composta ed interpretata da Gail Ann Dorsey, che ha prestato la sua profonda e scura voce anche ai due tributi diretti a Bowie: una intensa e scura “Lazarus” , ed una liberatoria e coinvolgente “Look back in anger”.
La giornata di sabato sulla carta si presentava stimolante, ma alla prova dei fatti si è rivelata quella meno interessante, perlomeno dal punto di vista del jazz fan. Si è iniziato al mattino al Teatro Vittoria con il progetto in solo fOUR del batterista Nate Wood. Il quale suona contemporaneamente basso, tastiere e batteria e talvolta canta, ed il fatto che riesca a produrre musica in questo modo è il dato più sorprendente. Quanto alla qualità, abbiamo ascoltato composizioni basate su basi elettroniche analogiche, appesantite da una ritmica hip hop incessante e da melodie indie rock. Qualche spunto di interesse come la finale “They’re coming” , ma gli entusiasmi con cui il concerto era stato presentato non paiono del tutto giustificati. D’altra parte, suonare la batteria con una mano sola non permette di fare più di così.

Il pomeriggio ha offerto l’esclusiva della band di Arto Lindsay, in Italia anche con altri progetti. Uno show che si prospettava riepilogo di carriera per l’inventore, oltre quaranta anni fa, della no wave, in seguito apprezzato autore di rock e bossa nova in vena arty. I primi due brani sono riandati esattamente a quell’epoca di fine anni settanta ed al modo assolutamente anarchico ed originale di Lindsay di maneggiare la chitarra elettrica per estrarne rumore, con l’ausilio di distorsori. A chi fra il pubblico, dopo un quarto d’ora, iniziava a temere un concerto di solo feedback, Arto ha risposto prima con un duetto fra la sua chitarra e le percussioni di Marivaldo Paim, quindi con l’ingresso della band al completo, con l’ospite Melvin Gibbs al basso, Paul Wilson alle tastiere e la direzione verso il formato canzone che ha dominato gli ultimi decenni della sua discografia. Voce intimista, testi in inglese e brasiliano, Arto non ha rinunciato a qualche irruzione noise della sua chitarra azzurra, ed ha lasciato spazio anche ad un rap declamato dal batterista Kassa Overall. Nel complesso un concerto che ha soddisfatto i fans del guastatore statunitense, lasciando in altri una vaga impressione di improvvisazione non jazzistica.

Sold out infine, alla sera, per l’unica data europea del Zig Zag power trio, la nuova formazione di Vernon Reid e Will Calhoun dei Living Colour con Melvin Gibbs al basso. C’era molta attesa per una svolta annunciata verso terreni più ampi del torrido heavy della band di origine, ma l’esito non è stato dei migliori. Partito nel segno del blues, il concerto si è sviluppato in lunghe estenuanti improvvisazioni elettriche che hanno evidenziato, accanto a perizia tecnica e virtuosismo dei musicisti, una certa carenza di idee. Qui il jazz era assente del tutto e neanche l’omaggio a Ronald Shannon Jackson o una esasperata, satura “Lonely woman” sono riusciti ad avvicinare il concerto al titolo del festival.