Il mio primo incontro con la Liberation Music Orchestra non avvenne su un palco, ma in un ristorante. Eravamo a Barga per il locale festival Jazz, verso fine anni ’80, e Charlie Haden e la sua numerosa formazione stavano cenando nello stesso locale dove io ed i miei amici avevamo trovato posto. Ricordo poco della cena, se non la grande tavolata dell’orchestra, ed un curioso episodio: uscendo dal ristorante per andare al concerto, Luigi scontrò la custodia che conteneva il corno francese di Sharon Freeman, la quale gli lanciò di rimando un’occhiata davvero poco benevola.
Non so se siano i grami tempi attuali ad avere fatto scattare la voglia di riascoltare la LMO e di commuovermi nuovamente con la sua musica per la pace, di sicuro credo che un ripasso periodico di ciò che Charlie Haden e Carla Bley realizzarono dal lontano 1969 fino al 2011 sia necessario per tutti, giovani curiosi ed anziani con la memoria troppo piena.
I dischi prodotti dall’Orchestra in questi anni sono stati soltanto quattro, più un compendio, “Time/Life” pubblicato nel 2016, due anni dopo la scomparsa di Charlie Haden, che comprende solo due brani (“Blue in green” e “Song for the whales” ) con la direzione del fondatore, tratti dal concerto finale di Antwerp del 2011, ed altri tre nei quali il timone è retto dall’amico Steve Swallow. Un disco per ogni Presidenza Usa che rendesse necessario il richiamo a quei valori di giustizia, libertà, uguaglianza, pacifismo posti alla base della creazione dell’orchestra nel 1969.
La guerra in Vietnam sotto la presidenza di Richard Nixon, le canzoni della guerra civile spagnola, l’assassinio di Che Guevara, sono alcune delle motivazioni ed ispirazioni che alimentarono, nel pensiero di Haden, la creazione della musica del disco d’esordio, con il contributo fondamentale di Carla Bley autrice di tutti gli arrangiamenti e la partecipazione di Gato Barbieri, Paul Motian, Don Cherry, Michael Mantler Andrew Cyrille e Roswell Rudd, pubblicato dalla Impulse Records. “La musica di questo album – scrive Haden nelle note di copertina – è dedicata a creare un mondo migliore, un mondo senza guerre ed assassini, senza razzismo, povertà e sfruttamento, un mondo in cui gli uomini di governo comprendano il valore della vita e combattano per proteggerla anzichè distruggerla“.
“Avevo da parte queste splendide canzoni tratte dal periodo della Guerra Civile Spagnola, musica bellissima che immaginavo potesse ispirare questi grandi improvvisatori” . E così succede, con i temi folk affrontati con piglio barricadero ed un suono appropriatamente ruvido, mantenuto anche nelle varie riedizioni del disco, che forniscono lo spunto a liberi dialoghi nel linguaggio jazzistico, una formula assimilabile a quella del quasi coevo Gato Barbieri terzomondista. Insieme a questi brani, la celebre “Song for Che” tenuta in costante tensione delle corde del contrabbasso, una rilettura di “War orphans” di Ornette affidata al piano di Carla Bley, una ironica “Circus ’68 ’69” che riproduce in musica una diatriba politica svoltasi nella sala della convention del Partito democratico in merito alla posizione da assumere sulla guerra in Vietnam, ed un accenno finale dell’inno “We shall overcome” di Pete Seeger dal trombone di Rudd.
Una gestazione non semplice quella del disco, anche a causa dell’uso della parola “Liberazione” che richiamava il Fronte Nazionale di liberazione del Vietnam.
“Mi chiamò il produttore Bob Thiele prima che l’album fosse pubblicato – ricorda Haden – e mi disse di avere problemi con la ABC Impulse a causa del contenuto troppo connotato politicamente del disco e dell’uso del termine “liberation”. Così andai alla casa discografica e parlai a Jay Lasker che all’epoca dirigeva la produzione. Gli dissi che avrebbe perso grossi incassi se avesse rinunciato a fare l’album. La parola “liberation” è così adatta ai tempi che un gruppo rock potrebbe rubarcela e ricavarci un milione di dollari“.
Naturalmente il disco non vendette così tanto, come tutti gli album della LMO, ma la sua importanza nella storia del jazz e nella lotta per un mondo migliore resta un valore inestimabile.
Nel 1982, sotto la presidenza di Ronald Reagan, arrivò “The Ballad of the Fallen” (ECM) a nome di Haden/Bley, ma a tutti gli effetti opera dell’orchestra, ancora con Don Cherry, Paul Motian, Michael Mantler, Jim Pepper, Dewey Redman e Mick Goodrick, composta da canzoni di protesta provenienti da El Salvador, Portogallo Cile e Spagna, insieme a brani originali dei due fondatori. Fra le prime spicca la nota “El pueblo unido jamàs serà vencido” introdotta da un lungo preludio del sax e condotta trionfalmente dall’intera sezione fiati, seguita da una struggente, solenne “Silence” che cinque anni dopo darà il titolo all’album di Haden con Chet Baker, Enrico Pieranunzi e Billy Higgins pubblicato dalla Soul Note, e dalle intime suggestioni del duetto Haden/Bley di “Too late“.
“Quindi mi tornò voglia di farne un altro sotto la Presidenza di Bush senior”: nel 1991 ecco quindi “Dream Keeper“(Polydor) in cui oltre ai soliti noti come Motian e Redman, l’orchestra si arricchisce di nuovi eccellenti nomi quali il trombettista Tom Harrel, i sassofonisti Joe Lovano e Brandford Marsalis, il trombonista Ray Anderson e la pianista Amina Claudine Myers.

I temi all’ordine del giorno riguardano le controverse questioni razziali in Sud Africa ed El Salvador, e la musica mescola jazz, gospel, New Orleans e Sud Africa. Una suite in quattro parti scritta da Carla Bley per l’orchestra ed il Coro di ragazzi di Oakland intervallata da rielaborazioni di canzoni popolari da El Salvador, (“Feliciano ama”) Venezuela (“Canto del Pilon”) e dall’Inno del Movimento delle donne anarchiche spagnole, un altro tema che deriva dal periodo della Guerra civile, fornisce il titolo ed il tono all’album: toni intensi e rilassati della suite iniziale, graziata da un grande Tom Harrel , solenni e swinganti nella lettura dell’ “Inno del Congresso nazionale africano” scritto da Nkosi Sielel, e brani di più marcata impronta ritmica come la nota “Rabo de nube” di Silvio Rodriguez, e “Sandino” scritta da Haden, il quale firma anche la chiusura con un suo originale “Spiritual”, protagonista il piano della Myers.
“Prima delle elezioni del 2004 chiamai Carla comunicandole la mia intenzione di ridare vita all’orchestra. “Capisco“, mi rispose lei, e così partimmo con un tour europeo della LMO che si concluse con la registrazione a Roma, presso gli studi del Forum Music Village, del quarto disco.

https://www.youtube.com/watch?v=-nypVA-2gjALetto su alcuni striscioni appesi alle finestre dei palazzi in Spagna ed Italia durante il tour con Pat Metheny dell’anno precedente, lo slogan “Not in our name” rappresentava nel modo migliore lo stato d’animo di chi voleva segnare una cesura netta rispetto alle strategie di Bush Jr nei confronti dell’Iraq, e, su suggerimento di Miguel Zenon, nuovo membro dell’orchestra, insieme a Seneca Black, Chris Cheek e Tony Malaby, quello divenne il titolo del quarto disco, dove la musica della Liberation si avvicina ad una dimensione sinfonica e classica. Al cuore dell’album il medley di 17 minuti che raggruppa composizioni dedicate al paese di Haden e della Bley, “America the beautiful“, in doppia versione, l’inno nazionale afroamerciano “Lift every voice and sing” ed un estratto da “Skies of America” di Ornette Coleman. All’inizio la splendida title track scritta da Haden, una versione virata reggae di “This is not America” composta da Pat Metheny, Lyle Mays e presente, nella versione cantata da David Bowie, nella colonna sonora di “The falcon and the snowman” di J. Schlesinger (“Il gioco del falco”) ed alla fine, un trio di composizioni che lasciano senza fiato: “Going home” dal Largo della Sinfonia del nuovo mondo di Antonin Dvorak, “Throughout ” di Bill Frisell ed il celebre, commovente “Adagio” per archi di Samuel Barber. Un piccolo patheon della migliore musica del secolo.
Nell’ ampia e varia discografia di Haden, avviata nel quartetto di Ornette Coleman e sviluppata in una moltitudine di formule e proposte, dai duetti con Coleman, Shepp, Don Cherry, Hampton Hawes, Paul Motian, Egberto Gismondi e Pat Metheny, ai trii con i pianisti Gnozalo Rubalcaba, Geri Allen, Paul Bley and Brad Mehldau, fino alla impagabile storia fra jazz e cinema del suo Quartet West, la Liberation ha sempre rappresentato un punto fermo, un modo per manifestare in musica le proprie idee su come stavano andando le cose in America. “Il motivo per cui devo farlo è davvero triste – spiegava Haden nel 2005, e sta diventando più triste ogni giorno che passa. “
Dal punto di vista musicale l’orchestra costituì il mezzo per dare vita alla visione espansiva sul jazz di Haden : ” Considero sempre gli improvvisatori jazz come improvvisatori tout court, nell’intento di allontanarmi dalle classificazioni categoriche del mondo del jazz, che anno dopo anno diventa sempre più ristretto. Quello che desidero è, invece, contribuire ad espanderlo.“
Riascoltando questi vecchi dischi, ritrovando la spontaneità ed il vigore delle melodie popolari preservate nel raffinato gioco di incastri orchestrale e nelle animate improvvisazioni, risulta immediato riconnettersi emotivamente al pensiero di Charlie Haden, un musicista che parlava come suonava, ovvero con il cuore. Nella sua visione, la missione dell’Orchestra nella diffusione dei propri valori fondativi era concepita con un termine, al punto da sperare non fosse necessario registrare dopo quello del 2005 un altro lavoro con quella ragione sociale. “Non avrei mai pensato di dirlo, considerato il piacere e l’eccitazione di suonare con così grandi musicisti, – si confidò ad un certo punto – ma spero che la gente sappia aprire gli occhi su come vanno le cose e che questa consapevolezza possa durare fino alle elezioni presidenziali del 2008″.
Senz’altro, fosse rimasto Charlie tra noi, un nuovo disco della Liberation Music Orchestra sarebbe stato comunque necessario fra il 2017 ed il 2021.
Le citazioni sono tratte dall’articolo “Jazz Liberation / Charlie Haden gets the political band Liberation Music Orchestra back together” di Derk Richardson, San Francisco Gate – 1 dicembre 2005
un dolce amarcord con venature generazionali. quanto manca una personalità del genere all’intera scena. Per fortuna abbiamo cataste di dischi che ce lo fanno vivere. Charlie Lives!
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