Billy Childs – The Winds of Change

BILLY CHILDS – The Winds of Change – Mack Avenue -Supporti disponibili: CD-Digital download

Anzitutto una comunicazione di servizio: se siete arrivati qui guidati dai motori di ricerca perchè cercavate l’ampollosa hit fischiettante dei lungocriniti Scorpions di fine anni ’80 sappiate che siete fuori strada e potete pure saltare a piè pari il resto e tornare nel mare magnum di Google finchè non trovate i metallari tedeschi in salsa agrodolce col berrettino.

Billy Childs, forse per evitare guai simili, ha usato il plurale, ispirandosi già trent’anni fa, quando la composizione fu scritta, a degli “winds of change” che non preludono però a cadute di muri o abbattimento di stili di sorta, piuttosto a una sorta di consapevolezza nella evoluzione, una necessità a cambiare sospinta però da una conoscenza della materia che si fa sempre più profonda stagione dopo stagione.

Non è un caso che Childs ripeschi proprio quel brano dando il titolo all’album, e la copertina oggi lo immortala tra venti di cambiamento che spirano piuttosto lontano dalle barricate, il Nostro appoggia il whisky torbato e guarda in camera con gran classe, giacca, cravatta e lampo ironico negli occhi, molto sicuro di sè. La ridente bottiglieria alla sue spalle ammicca ad un utilizzo della musica del disco con il conforto di importanti distillati, preziosi quanto le note che questa band per l’appunto distilla, in un’ora di jazz che ho trovato formidabile.

La definizione all-stars sarà forse pure un po’ logora ma definisce come meglio non si potrebbe questo quartetto del pianista losangelino Billy Childs, classe ‘57 dalla rimarchevole discografia come leader, che si avvale di Ambrose Akinmusire alla tromba, Scott Coley al basso e Brian Blade alla batteria. E’ un combo dall’anima west-coast -anche Coley è di Los Angeles, mentre Akinmusire è della zona di San Francisco- che rivendica il proprio status dal primo brano in scaletta, “The Great Western Loop”, pezzo d’alto lignaggio, sviluppato su tre note e che evoca una lunga, estenuante escursione che attraversa diversi stati dell’Ovest e che mette subito in mostra il livello della band, con il trombettista che propone il lato più misurato del suo stile e convince in pieno, con assoli concentrati e di pregio.

Childs mette in playlist altri 4 originals cui aggiunge due brillanti arrangiamenti che tributano omaggio a colleghi importanti, ovvero il compianto Chick Corea, del quale viene riletto l’iconico “Crystal Silence”, e Sua Maestà Kenny Barron, dal cui corpus compositivo viene eseguito “The Black Angel”, un brano dimenticato che uscì nel ’70 in un disco di Freddie Hubbard, uno dei giganti con cui Childs collaborò in gioventù (agevoliamo una clip da quella importante collaborazione, recuperando un altro disco meritevole di riascolto)

L’atmosfera da film noir intriga molto il leader che gioca con canoni ed ombre in controluce in una quasi-chandleriana “Master Of The Game” mentre l’introspettiva “The End Of The Innocence” colpisce direttamente al cuore, evocando nostalgie lontane e momenti di passaggio, ed in cui, per continuare con le suggestioni letterarire, fa capolino anche il migliore James Ellroy, spietato narratore omerico di una Los Angeles che il pianista ha respirato a pieni polmoni, tra le pieghe di un brano che coinvolge con la sua intima solennità.

L’America non è mai stata innocente. Abbiamo perso la verginità sulla nave durante in viaggio di andata e ci siamo guardati indietro senza alcun rimpianto. Non si può ascrivere la nostra caduta dalla grazia ad alcun singolo evento o insieme di circostanze. Non è possibile perdere ciò che non si ha fin dall’inizio.

La mercificazione della nostalgia ci propina un passato che non è mai esistito. L’ agiografia santifica politici contaballe e reinventa le loro gesta opportunistiche come momenti di grande spessore morale. La nostra narrazione ininterrotta è confusa al di là di ogni verità o giudizio retrospettivo. Soltanto una verosimiglianza senza scrupoli è in grado di rimettere tutto in prospettiva.” (American Tabloid – James Ellroy)

Tra le fini tessiture armoniche si coglie l’ampia gamma dei colori utilizzati dai quattro, si gode della telepatica sincronìa pianoforte/tromba, con i brani mutevoli che viaggiano tra variazioni cromatiche e cambi d’orizzonte, in perfetto equilibrio tra jazz modale, echi gospel, fragranze pop e con un profondo senso del blues a far da collante in ogni passaggio. Non crediamo sarà facile vedere questo quartetto in azione dal vivo, visto quanto sono occupati i suoi componenti, ma in fondo sperare non costa nulla e, nel caso, prenoto fin d’ora una poltrona in prima fila.

Lanciamo il repeat, la musica torna ad avvolgerci con accresciuta morbidità, è uno di quei dischi cui si rischia d’affezionarsi molto, il talento smisurato di questo quartetto non esplode in clamorosi assoli ma nelle composizioni di Childs tende ad esporsi in modo del tutto coeso e con una misurata ritrosia, un invito a riaddentrarci più volte a far l’intero percorso, per cogliere le diverse stratificazioni che mutano ad ogni ascolto, e allora rabbocchiamo solo un pochino il bicchiere, aggiungiamo del ghiaccio ecc.ecc,

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