Sulla linea di porta- Orrin Evans – “The Red Door” (Smoke)

ORRIN EVANS – The Red Door (Smoke Sessions Record) Supporti disponibili: CD

The lamp said:
‘Four o’clock
Here is the number on the door.
Memory!
You have the key,
The little lamp spreads a ring on the stair,
Mount.
The bed is open; the tooth-brush hangs on the wall,
Put your shoes at the door, sleep, prepare for life.’

The last twist of the knife.

(T.S. Eliot – da “Rapsody from a Windy NIght”)

Sono innumerevoli le suggestioni letterarie, culturali e religiose che suscita “la porta rossa”. Nella filosofia cinese Feng Shui significa “benvenuto”. La porta rossa d’ingresso è la “Bocca del Chi”, dove entra l’energia. Una porta rossa suggerisce protezione, ha fornito riparo, ha garantito salvezza. La porta rossa che Orrin Evans attraversa e dalla quale ci scruta, sardonico dietro i suoi occhiali da sole, ha molti significati, ma va a mio avviso va intesa soprattutto come un potente invito a non temere l’ignoto, ad andare oltre le certezze acquisite, oltre le paure, la tristezza per gli amici andati, oltre se stessi. La prima volta che vidi all’opera il pianista Orrin Evans fu a Verona Jazz, un quarto di secolo fa, nel quintetto di Bobby Watson, un ragazzo concentrato e brillante, già estremamente sicuro di sè, suonava con uno zainetto in spalla e un registratore portatile per riascoltarsi in cuffia subito dopo il concerto, ed aveva generato la diffusa sensazione che quella volpe di Bobby ci avesse preso anche stavolta nel reclutare un talento del genere, dandogli ampio spazio durante gli assoli. Qualcuno del pubblico aveva già in bacheca il suo primo disco Criss Cross (“Captain Black” – 1997) e c’era chi già s’aspettava grandi cose, tra quelli che assiepavamo il cortile veronese dove si teneva il concerto, inserito in una rassegna che stava regalando gli ultimi lampi prima di subire un’involuzione clamorosa ed in pratica spegnersi, in un modo che ancor’oggi giustamente addolora e indigna molti jazz-fans dell’area.

Adesso, dopo trent’anni di carriera, con un bottino discografico notevole, collaborazioni mondiali ecc., c’è ancora in circolo la sensazione, diffusa tra gli appassionati che attendono ogni lavoro del pianista di Philadelphia, che “the best is yet to come”. Ebbene , la sua ultima fatica discografica, “The Red Door”, inciso per la sempre più meritoria Smoke Sessions è un disco importante e “ipercalorico”, che ci lascia ancora con quella sensazione, la ricerca di Evans procede, e sarà importante seguirlo. Questo è comunque un disco composito, giocato a cavallo di tre anni assai particolari, suonato tra passato e futuro, pubblico e privato, tra dolore, morte e rinascita, in un unicum spirituale in cui il Nostro pa1re immergersi, alle prese con materiale tematico proveniente da sessions e band diverse ma capace di fondersi con una certa ingegnosa omogeneità, ed in cui c’è anche il sobrio zampino di un’attenta post-produzione. Anzitutto c’è alla ribalta, ovviamente, il gruppo attuale, che fila come un treno a disegnare con sagacia jazz aggiornatissimo, grazie all’empatia con un drummer enorme come Marvin Smitty Smith ed il basso di Robert Hurst, ma c’è anche, in due brani estesi, una band diversa, con i veterani Buster Williams e Gene Jackson sugli scudi, con il compianto gigante Wallace Roney a regalare un ultimo cameo e Nicholas Payton a raccoglierne la fiaccola in altri tre brani. Come se non bastasse ci sono poi, a dare leggibilità all’intero lavoro attraverso definite tracce liriche, le voci delle cantanti Jazzmeia Horn (“Big Small”) e Sy Smith, commovente in “Amazing Grace” proposto nell’arrangiamento di un’altra amica-collega perduta, Geri Allen, dal cui repertorio viene anche proposto in quintetto uno dei suoi pezzi iconici: “Feed The Fire”.

Ritroviamo poi la gloria impolverata di un magnifico tenorista come Larry McKenna (neldelizioso blues “The Good Life”), un jazzman a tutto tondo ci ha lasciato solo pochi giorni fa, un classico eroe dimenticato che, lo scopriamo ora alla sua scomparsa, era adorato da una sequela di musicisti, a dispetto di una notorietà piuttosto sbiadita e limitata. Proponiamo la clip del brano, in cui il vecchio Larry lascia la sua firma d’esemplare classicità.

Nella playlist trovano poi posto poi la rilettura di una pagina di un altro amico che è stato portato via da un tumore, il batterista Ralph Peterson Jr., la cui ombra fa capolino tra le volute di “Smoke Rings”, ricordandoci che fuoriclasse era e spingendoci a recuperare qualche disco in cui il suo sottile drumming incantava, per esempio nella Captain Black Big Band dello stesso Orrin Evans, una nave spettacolare che aspettiamo torni a comparire all’orizzonte. Trattandosi di un musicista in continuo divenire sappiamo fin d’ora che arriveranno dischi più immediati, concerti e sessions di furibonda intensità, qui Evans ci offre un ventaglio sui suoi ultimi anni e nonostante la molta carne al fuoco ne esce un ritratto di jazzman col cuore in mano, la porta rossa alle sue spalle si chiude, manco a dirlo, con due brani da miocardite: uno Stevie Wonder d’annata (“They Wan’t Go When I Go”)in duo con Alita Moses e poi la limpida, eloquente “I Have the Feeling I’ve Been Here Before”, in trio.

(Courtesy of Audioreview)

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.