Charles Lloyd – The sky will still be there tomorrow (Blue Note)

Il titolo del nuovo doppio album di Charles Lloyd potrebbe alludere al sentirsi alle ultime tappe del viaggio umano ed a quello che resterà dopo, ma la vitalità espressa qui dall’ottantaseienne sassofonista rassicura tutti circa il presente e l’immediato futuro. Di certo quello che emerge da questi novanta minuti, composti da un insieme di rivisitazioni e brani originali, è una sorta di somma di molti aspetti del suo percorso artistico, percorsa insieme ad una compagnia di stelle del panorama jazz attuale come Jason Moran, Larry Granadier e Brian Blade.

L’impressione proviene , oltrechè dal breve memoir delle note di copertina dove Lloyd si dipinge da ragazzo del Sud, fra profumi di magnolia e fetori razzisti, innamorato di Lady Day ed in perenne spostamento fra i quattro punti cardinali degli USA, anche dalla quantità di richiami musicali e non, tratti dalla sua vita e sparsi lungo i quindici brani della raccolta.

Il viaggio inizia da uno dei pezzi più affascinanti : un tema evocativo del pianoforte si staglia da un minimale loop di percussioni, il sax si aggiunge con una sonorità dapprima sommessa poi l’insieme cresce come un’ onda imponente per infrangersi gradualmente e lasciare sul terreno il sax con poche sparse note del pianoforte. Si intitola “Defiant, tender warrior”, “Provocatorio, tenero guerriero” e la ritroveremo alla fine in una reprise leggermente diversa. Potrebbe essere un magnifico autoritratto.

E’ un quartetto dalla personalità ben definita, con Moran e Grenadier a delineare i perimetri armonici e melodici, Blade ad intessere una finissima trama percussiva multiforme ed il “respiro” del leader nel sax che accarezza i temi per poi librarsi nelle rotte del proprio libero eloquio, quello che ci accompagna nello svolgimento del corposo programma seguente. Ci sono riprese da lavori di qualche anno fa (“Balm in gilead“, “Lift every voice and sing” , “Booker’s garden ), molti brani nuovi ed un paio di omaggi alla storia del jazz. Il primo è dedicato a Monk (“Monk’s dance“) e si apre con una scia di pianoforte stride che introduce uno dei migliori esempi dell’eloquio “parlante” di Lloyd per chiudersi con una magistrale serie di breaks di Blade integrati in modo naturale, quasi impercettibile, nello sviluppo del brano. L’altro è per Billie Holiday (“The ghost of Lady day“), introdotto dal solo del contrabbasso e riempito da una cascata di colori del sax in un contesto prevalentemente astratto.

The lonely one” si apre in un clima fiabesco e pastorale per dipanarsi presto in una cellula melodica che il sassofono contorna di “appunti” mentre il clima generale cresce in intensità; poi tutto si ferma, come cristallizzato in un momento di stupore, il basso riprende le redini del tema fornendo al sax la base per un ulteriore, più riflessiva ripresa. Un pezzo di autentica drammaturgia musicale.

La tenerezza della ballad “The water is rising” evoca uno degli intenti dichiarati dell’opera: reagire con un’ offerta di positività ad una situazione che nel periodo pandemico, a metà 2020, aveva agitato l’animo di Lloyd interrompendo il suo visionario viaggio, iniziato fin dagli anni della gioventù, verso un mondo nel quale la bellezza potesse sconfiggere la violenza. La scelta, confidata allora alla moglie Dorothy, era ricaduta sul quartetto di questo disco, ed ha impiegato tre anni per vedere la luce. Il brano è emblematico della dialettica fra Lloyd e Moran, con il secondo impegnato in un costante lavoro di supporto e controcanto della voce del leader. “Jason Moran ed io – dice Lloyd nelle note – parliamo un linguaggio che deriva da un profondo amore per il suono e per il mistero che risiede nella ricerca di quel suono. I nostri geroglifici condividono Scriabin e Berg, Uom Kalthum e BaAka, Howlin’Wolf e Monk, Bach e Bird, Prez e Lady day.”

Al flauto sono dedicate “Late bloom” e la seguente “Booker’s garden” una jam dall’andamento nervoso e movimentato, con gran lavoro del basso e della pila ritmica della batteria di Blade, consacrato dallo stesso Lloyd a successore ideale del vecchio compagno “Master” Billy Higgins.

Il primo disco si chiude con la title track dalla intro ornettiana popolata da sax e batteria, ai quali si aggiunge il piano di Moran che trasporta il brano dalle concitate linee free ad un embrione di struttura venato di tinte blues che si deposita nel finale dopo una libera escursione del sassofono.

La pausa (anche virtuale) del cambio disco è interrotta da “Beyond darkness“, notturno condotto dal flauto e dall’ apparato percussivo che richiama atmosfere orientali, sul quale si staglia il solo estatico di Moran.

L’amore per la prospettiva naturalistica di Lloyd produce “Sky valley , spirit of the forest“, uno dei pezzi più estesi ed astratti introdotto in trio e sviluppato sul tema avvolgente del sax in un contesto ritmico astratto, in continuo avvicendamento fra parti libere e tematiche fino al liberatorio canto finale, e “When the sun comes up, darkness is gone“, nella quale basso e batteria seguono percorsi autonomi nel perimetro disegnato dalle prolungate note del sax.

Il trasporto verso le cause dei diritti civili porta invece alla riproposizione degli inni afroamericani “Balm in gilead” già condiviso con Billy Higgins sul disco del 2000 ” The Water Is Wide“, e “Lift every voice and sing” composto dai fratelli James e Rosamund Johnson, qui proposto in una versione destrutturata. Al medesimo sentimento appartiene la dedica a Nelson Mandela di “Cape to Cairo“, un’ estesa ballad che prende gradualmente forma dalla introduzione free, acquistando in corso accenti swinganti.

Al termine del ripetuto ascolto, sazi di musica e suggestioni, complici dei giochi complici dei nostri quattro, viene da esprimere un solo pensiero: che molto del jazz di cui si ha bisogno oggi sia contenuto proprio in questi due dischi.

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