Si è svolto dal 23 al 31 agosto scorsi il Roccella Jazz Festival “Rumori Mediterranei”, arrivato quest’anno alla sua 45esima edizione: un’edizione che – dopo la scomparsa di Vincenzo Staiano, che l’aveva curato nell’ultimo decennio con il sostegno diretto della Città Metropolitana di Reggio Calabria e della municipalità di Roccella Ionica – segna una cesura importante con la nuova direzione artistica di Mirko Onofrio, che seguirà questa nuova fase del festival per altri due anni.
Ed è un’edizione musicalmente aperta, questa prima a cura di Onofrio, con attenzione verso il contesto e la tradizione su cui si innesta da un lato, e proiettata verso proposte più ardite, e in parte felicemente singolari nel panorama italiano, dall’altro: riprendendo – con grande apprezzamento del pubblico di più lunga data – il filo del discorso e la temperie sonora ed emozionale che, dal 1981 in poi, hanno fatto di “Rumori Mediterranei” uno dei festival innovativi di rilievo nel panorama italiano ed europeo, e al contempo progetto di ampia valenza culturale per il territorio stesso.
Così, dopo le prime serate di “avvicinamento” al jazz, sul lungomare della spendida località calabrese, passando ad esempio per il connubio tra folk balcanico e del Sud Italia del Nubras Ensemble e i ritmi africani di Abou Samb e del gruppo Afrodream, per arrivare al Francesco Cafiso Duo e al Roma Jazz Quintet con il suo omaggio a Tenco e alla canzone francese, il festival è poi entrato in una dimensione più d’avanguardia, con due sere dedicate a grandi figure del jazz e della musica di ricerca internazionale, già presenti in passato a Roccella: Carla Bley e Lawrence “Butch” Morris.
Di entrambi si è parlato, prima dei concerti serali, all’interno di “Talking about jazz” , apprezzabile sezione dedicata ai libri del jazz a cura di Giuseppe Rossi, con lo stesso Onofrio a raccontare della sua preziosa ricerca su Bley (Carla Bley. La ragazza che urlò ‘champagne’, Fonicottero/Le Pecore Nere, 2023), accompagnato dai ricordi di Karen Mantler – presente per una sua rarissima apparizione in Italia –, cresciuta musicalmente a partire dal contesto familiare e professionale di Carla Bley e Michael Mantler, per sviluppare poi un percorso artistico personalissimo, e di cui si è avuto una stupenda e privilegiata prova la sera stessa.

Canzoni scarne, testi ironici e a tratti spietatamente malinconici, istantanee di ordinaria vita quotidiana in cui subito ritrovarsi, la voce sottile di Karen che si alterna liricamente all’armonica a bocca, Doug Wieselman (chitarra, clarinetto basso) e Kato Hideki (basso elettrico) a punteggiare i silenzi e a sostenere di volta in volta l’umore delle situazioni evocate, e un ricordo della madre con l’irriverente “I want to make my ass fat”: decisamente imperdibile. Vincente anche la scelta di presentare, in apertura della stessa serata, l’omaggio di Costanza Alegiani, con Fabrizio Puglisi e Matteo Paggi, “The girl who cried champagne”, che attinge al repertorio di Carla Bley tra gli anni ’60 e ’70, a ricordare una volta di più la grandezza di questa musicista a tutto tondo: con l’interpretazione vocale duttile e personale di Alegiani, il piano elegantemente espressivo di Puglisi e i notevoli interventi a trombone e voce di Paggi.
Di tutt’altra impronta il ricordo di “Butch” Morris, nelle parole appassionate e animate di conductors quali Wayne Horvitz e Silvia Bolognesi, e con Alberto Lofoco – presenti con chi scrive ad introdurre il manuale postumo di Conduction® dello stesso Morris (L’arte della Conduction, LIM, 2024) – sulle specificità di questa pratica di direzione gestuale/improvvisazione condotta ideata dal maestro statunitense, e sui possibili spazi di libertà che questa può offrire ad un esemble, per una musica programmaticamente al servizio del collettivo. Spirito collettivo che ha permeato anche i concerti successivi, in cui si sono potuti vedere all’opera sia Bolognesi sia Horvitz. La prima – felicemente inconfondibile al contrabbasso ma anche al basso elettrico, all’interno di un valido e promettente quartetto nato all’interno di Siena Jazz e capitanato dall’ottimo Andrea Glocker (trombone, tuba), e con un recente primo disco all’attivo (Across the line, Dodicilune, 2025): concerto di grande godibilità e di ottima fattura tra funk, jazz e rock, supportato da un deciso interplay tra il pianismo estroso di Santiago Fernandez, anche alle tastiere, la sezione ritmica, con Alessandro Alarcon alla batteria, e i fiati di Glocker.

Il secondo, Wayne Horvitz, qui ricalcando le orme di Morris, con cui ebbe modo di lavorare in passato – pensiamo ad esempio al trio con Bobby Previte attivo negli anni ’80 – alla direzione di un ensemble di musicisti del territorio, la RoccellArkestra, su progetto commissionato dal festival proprio attorno alla Conduction, impiegata qui da Horwitz sull’impianto di “Electric Circus”, e dunque attingendo a classici di funk, soul e jazz per innestarli sull’improvvisazione diretta. Un connubio di grande energia e divertimento (come non ricordare l’invito che Morris faceva sempre ai suoi musicisti prima dei concerti “but have fun”?), visione e rischio, a dimostrazione di quanto possa essere versatile la Conduction, all’interno e oltre i generi musicali, e tra improvvisazione e scrittura.

Nelle successive serate il festival è poi entrato a pieno titolo in “Rumori mediterranei”, – prima del ritorno sul palco di Roccella dei Quintorigo, con Jon De Leo, in una performance ‘eclettica’ in quanto a generi e di grande impatto sul pubblico – con un appuntamento per gli amanti del jazz di ricerca: anche in questo caso, nel solco della miglior tradizione di questa musica, con la sassofonista tedesca Silke Eberhard, che con il suo quartetto di fiati Potsa Lotsa si dedica da tempo all’esplorazione della musica del grande Eric Dolphy. Lavoro rigoroso alla ricerca dell’essenza, estrapolazione di nuclei melodici che fungono da canovaccio per arrangiamenti quanto mai aperti, strumentazione non usuale con l’assenza della sezione ritmica, per un concerto che fa risuonare l’opera di Dolphy, rendendola quanto mai attuale in contesto contemporaneo.

Più ampi invece gli organici che si sono esibiti sabato 30 agosto, con Simone Alessandrini ad aprire la serata, portando qui il suo progetto “Storytellers”, che, con l’omonimo album del 2017, Mania Hotel (2021) e Circe (2024), festeggia quest’anno i dieci anni, all’insegna della narrazione di storie di vita, resistenza, follia e mito, proposte con grande intensità anche a Roccella, in una formazione a sei. Narrazione a tratti serratissima e drammatica, a tratti più distesa e malinconica, melodie dal sapore popolare sostenute da arrangiamenti jazzistici di ottima fattura, echi blues stralunati, fiati veementi che si rincorrono l’un altro, una solidissima sezione ritmica, ed una magnifica intesa di gruppo: inizio esplosivo di serata, per storie che meritano di essere recuperate alla memoria, e che trovano nella musica degli Storytellers il loro habitat naturale.

Melodie a tratti più distese sono invece seguite nel lungimirante progetto “Under 29 but me – Colours” di Rita Marcotulli, che ha riunito attorno a sé giovani talenti della scena jazzistica italiana, con notevoli interventi di Elettra Minieri, alle tastiere e qui anche in parte compositrice, e una sezione ritmica che sa assecondare il raffinato pianismo della leader come pure farsi propulsiva, accanto ai fiati affiancati da Luca Aquino, e ad Ava Alami alla voce. Ne sentiremo sicuramente ancora parlare.
A chiudere il festival, domenica sera, Francesca Tandoi, pregevole sia alla voce che al piano, e valorizzata nella dimensione più intima del trio, e un ritorno alla dimensione della big band, con Fabrizio Bosso special guest a dialogare con la valida Big Band dell’Esercito Italiano: chiusura festosa, calda, sottolineando l’apertura programmatica del festival alle molteplici anime del jazz, senza preconcetti o gravità, per una 45esima edizione di riuscito rinnovamento.
(Foto di copertina ©Pino Curtale)
