AND THEN AGAIN – Bill Charlap Trio (Blue Note) Supporti disponibili: CD / LP
Dal fondo delle scale del Village Vanguard i tre musicisti ci guardano entrare, ci aspetta una serata con uno dei trii pianistici jazz più affermati e longevi del pianeta, è sabato sera, il club è pieno, Bill, Kenny e Peter ci attendono, incravattati e molto eleganti nei loro abiti da sartoria, nemmeno il tempo di guadagnare, idealmente, il nostro posto….ed ecco che staccano già il primo brano, deliziosamente bop nell’incedere, e qui si tratta della title-track, presa dal repertorio di un collega assai amato da Charlap, ovvero quel Kenny Barron che titolò anch’egli “And Then Again” un suo lavoro, piuttosto dimenticato, d’inizio anni ‘90, quando quest’ultimo non era ancora diventato l’icona vivente del jazz che è oggi, ma sgomitava per confermare il suo posto in una scena affollata e competitiva. In ogni caso si tratta di una composizione veloce, un up-tempo dallo sviluppo virtuosistico che Barron ha proposto spesso nei suoi recital e che abbiamo visto riletto da ben pochi altri colleghi.
Proponiamo di seguito due clip con la versione incendiaria di Barron, da un Live del 1982 (“Imo Live”), si prende fiato solo durante il lungo solo di contrabbasso di Buster Williams, e poi quella recentissima del disco di oggi, con il trio di Charlap che abbassa leggermente il metronomo, gioca con alcune iterazioni dell’originale ed aggiunge oblique nuances monkiane al brano.
La Blue Note ha dimostrato negli ultimi anni di puntare molto su Charlap, pubblicandone diverse opere con questo suo “classico” trio in cui s’evidenzia l’entusiasmo ed il rigore con cui il pianista ripercorre la storia del jazz, con un approccio positivo e d’innegabile spessore, nulla di museificato insomma quanto piuttosto l’aggiornamento, discreto, di un canone, nel totale rispetto di una continuità culturale di cui si sente giustamente erede, con le responsabilità, gli onori e gli oneri che ne derivano. Il modus operandi di Charlap si effonde anche in questo set nel jazz club più famoso del mondo, con il trio che si muove flessuoso tra i temi scelti per il programma, tutti brani molto celebri che vengono esposti con estremo nitore prima d’essere sviluppati ed illuminati a tratti da lampi improvvisi, rimandi interni, sottili contaminazioni, sovrapposizioni, scambi di ruoli, un caleidoscopico meravigliarsi reciproco dei tre, cercando sempre -ma senza indugiarvi troppo- la via più brillante trovare il bandolo della matassa, facendo leva su varie consonanze col pubblico. Alla fine il tutto funziona come balsamo eccellente non solo sulle ustioni del vivere ma anche come rimedio e “ritorno a casa” dopo tante escursioni parajazzistiche che spesso risultano più che altro sgangherate, egotiche od autoriferite.
“All the Things You Are”, uno degli architravi del jazz moderno, per dire, resta di una bellezza inaudita, Bill Charlap lo sa fin da quando lo ascoltava da bimbo dalla voce della madre Sandy Stewart, cantante affermata ai tempi, con cui ha iniziato la sua carriera, e chissà quante volte l’avrà sentita suonare anche dalla moglie, la magnifica pianista Reneè Rosnes con cui forma la coppia più jazz oriented del globo terracqueo, e detto tra noi non sarebbe male un secondo volume di Double Portrait…
Tornando al nostro album, aggiungiamo che Kenny Washington alla batteria e Peter Washington al contrabbasso (ritmica “presidenziale” par excellence) suonano con Charlap da circa 30 anni, insomma il trio è di fatto quasi una creatura a sé stante, forgiata sui palchi di tuto il mondo, e anche le versioni qui contenute di “Darn That Dream” e della celeberrima “Round Midnight” non sono per nulla routiniere, si sono affinate con gli anni e come un gran vino in barrique non temono raffronti con le migliaia d’interpretazioni che si sono affastellate col tempo.
L’intensità emotiva e la concentrazione dei tre non cala di un grammo durante tutto il set, il trio con “In Your Own Sweet Way” paga pegno all’amato Dave Brubeck, ed ecco poi apparire il fantasma curvo di Bill Evans alla tastiera, al Vanguard non poteva non buttare una benedicente occhiata, e così l’ultimo brano del disco è una torch song micidiale, di quelle che bazzicava Lady Day e con “(I Don’t Stand) A Ghost of a Chance With You” si chiude un concerto impeccabile, di quelli da spellarsi le mani per reclamare un bis, e poi ancora, and then again...

