L’invito è lo stesso formulato in occasione del precedente lavoro solista di Sophie Tassignon “Mysteries unfold“: concedersi una mezz’ora in compagnia della stupefacente voce della cantante belga, adagiata sullo sfondo di trame elettroacustiche intessute da lei stessa o dal sodale chitarrista Kevin Patton. Enunciato così, può sembrare riduttivo e minimalista il contenuto di questo nuovo “A slender thread“, pubblicato dall’etichetta germanica Nemu records, quando invece la sensibilità, la dedizione alle tradizioni musicali dalle provenienze più disparate e le notevoli capacità tecniche di Sophie riescono a costruire l’ennesimo viaggio metatemporale e nello spazio geografico, cucito da quel filo sottile che simbolicamente tiene insieme le diverse tappe. Da tempo lo sguardo di Sophie è rivolto al Medio Oriente sconvolto da eventi e tragedie belliche, come testimonia il più recente lavoro registrato con il quintetto di musicisti tedeschi “Kyhal” cantato nelle lingue che appartengono alle terre di Siria, Libano, Giordania e Palestina. “A slender thread” sembra animato da analoghi intenti, ovvero fare convivere il canto in lingua araba con forme musicali provenienti da diverse culture, in quel caso il jazz contemporaneo europeo, in questo una personale visione che coniuga elettronica e sperimentazione vocale. Tratto comune è la volontà di rappresentare, tramite l’arte, un anelito di pace ed unione che attraversa territori e culture sconvolte da divisioni, dall’odio e dalla guerra. Ho ritrovato, fra queste sette tracce, aperte da “Erbarne Dich“, un’ aria di J.S. Bach lanciata degli spazi siderali dalle potenti volute vocali della cantante, l’idea che il processo verso la pace possa essere rappresentato e forse, in uno sforzo che sfiora l’utopia, aiutato, dall’espressione artistica, che sta alla base di un libro bellissimo e terribile ad un tempo in cui mi sono imbattuto di recente, “La quarta parete” di Sory Chalandon , scrittore e giornalista francese che racconta del tentativo, divenuto ragione di vita per i protagonisti, di rappresentare la tragedia “Antigone” nel teatro di guerra del Libano sconvolto dagli avvenimenti di inizio anni ’80, con attori appartenenti a tutte le diverse etnie in conflitto fra loro. Una tensione partecipativa che avverto palpabile nel canto di Sophie, sia che consegni le parole del cantautore russo georgiano Bulat Okudzhava ai vortici elettronici di “Molitva (Prayer)“, che disegni, sdoppiandosi in più esecutrici, insieme alla chitarra di Kevin Patton l’ avvolgente melodia di “Chornij Yoran“, canto tradizionale cosacco dedicato alle ultime volontà di un soldato ferito.
O che affronti, con la delicata premura di un ospite e la determinazione di un portavoce, le parole della poetessa degli Emirati Ousha bint Khalifa Al Suwaidi in “Marhaba” o del poeta libanese Hicham Nasr, “Leaves” .
L’ultimo brano, autografo , “The soldier in you” , l’ennesima trasformazione della cantante tramite la lingua inglese, è l’istantanea di un rimpianto per un rapporto di coppia condizionato dal “soldato” che è nell’animo di uno dei due.
“Facciamolo cadere, quel soldato“, è l’invito di questa cantante militante per la pace, che ogni volta riesce a sorprendere e commuovere.
