JOSEPH JARMAN, R.I.P. – LA MUSICA COME VOCE LIBERATA

Ci ha lasciato anche Joseph Jarman, ad 82 anni, non una scomparsa precoce, quindi. Ma il musicista mancava di fatto già da molti anni dalle scene, essendosi progressivamente immerso in un ritiro dedito a ‘cose dello spirito’: una scelta degna di un saggio della classicità greca o romana (un bell’esempio per la scena pubblica italiana attuale…..).
Il nome di Jarman fa inevitabilmente scattare nel jazzofilo medio un’ineluttabile associazione di idee: Art Ensemble of Chicago, cui il nostro ha donato la seconda voce sassofonistica dalla nascita dell’ormai legendaria band sino a tutto il 1993, momento del suo distacco dalla stessa. Ma in realtà nella vita artistica di Jarman c’è anche un ‘prima’, un ‘dopo’ l’Ensemble, ed è proprio il caso di ricordarli.
Joseph nasce nel 1937 nel periferico Arkansas, in una famiglia povera, disertata subito dalla figura paterna e sostenuta dalla ventenne Eva Robinson, una delle tante ‘madri coraggio’ che popolano le biografie dei jazzmen della vecchia guardia. La Grande Depressione non ha ancora mollato la sua terribile morsa, ed allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale Mrs.Robinson si lascia coraggiosamente alle spalle il polveroso e depresso Midwest per raggiungere la grande Chicago dove trova lavoro nella ciclopica industria della Difesa sviluppatasi nel frattempo. Nella Windy City, musicalmente fatale, Jarman gode di una prima infanzia serena e di una istruzione scolastica in una scuola dove non vigeva discriminazione razziale. Un breve trasloco in un altro quartiere molto più duro ed il successivo ritorno a quello originario lo trasformano in un ‘ragazzo difficile’, spesso coinvolto in risse di strada. E qui si apre un capitolo determinante della vita di Joseph: per ‘darsi una regolata’ il ragazzo si iscrive ad un corso di addestramento paramilitare volto a preparare futuri ufficiali della riserva. I risultati di questo sforzo di autodisciplina sono tali che vince vari premi. Ma nel frattempo anche la musica bussa alla sua porta: cresciuto in una famiglia povera ma piena di appassionati musicofili (la madre canta nel coro gospel della chiesa, uno zio jazzofilo lo cresce nel mito di Lester Young e Charlie Parker, un’altra zia è accanita frequentatrice di jazz club ed introdotta nell’ambiente), con un amico comincia a spiare dall’esterno i concerti nei clubs in cui per età non possono esser ammessi. Ma mentre l’amico si può permettere uno strumento per suonare nella famosa band dell’ottima DuSable High School, Jarman riuscì solo a procurarsi un modesto rullante per iniziare da percussionista lo studio della musica con il Capitano Dyett, uno stimato insegnante ex-militare che pratica un metodo singolare in cui la musica è anzitutto strumento di autostima e crescita: tra i suoi allievi si notano Gene Ammons e Nat King Cole. Nonostante la passione per la musica, le necessità della vita spingono Jarman ad abbandonare gli studi ed ad arruolarsi nel 1955 nell’esercito, facendo tesoro della sua precedente formazione paramilitare: anche qui i risultati sono più che brillanti e gli schiuderebbero le porte ad una carriera di ufficiale… se solo non fosse nero, i programmi di integrazione razziale dell’U.S.Army sono ancora in parte buone intenzioni. La pelle nera non è però di ostacolo ad un assegnazione nell’Estremo Oriente, ed in breve Jarman si trova catapultato in Vietnam con i Berretti Verdi che già nel 1956 sono impegnati in una guerra clandestina: in un episodio in parte oscuro il nostro viene gravemente ferito in combattimento. Il fatto dev’esser stato molto serio, dal momento che a convalescenza finita gli viene data l’opportunità di scegliere un’altra destinazione.

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E qui ritorna la musica, questa volta come Zattera della Medusa: Jarman chiede ed ottiene il trasferimento in Germania, ad Heidelberg, in una famosa banda militare in cui spera di poter finalmente imparare a suonare l’agognato sax alto. Ma anche qui lo attende un altro rigoroso militare ‘tutto di un pezzo’: il direttore della banda non vuole pivelli steccatori nella sua formazione  e gli concede solo 60 giorni per imparare da zero le parti di sax alto delle marce in repertorio e padroneggiare seriamente la lettura degli spartiti, diversamente le risaie vietnamite sono pronte ad accogliere nuovamente il giovane Jarman. I musicisti commilitoni di Joseph lo salvano dedicandosi a turno a lui in una full immersion che dura tutto il giorno per due mesi: alla fine Jarman supera la prova di ammissione e trova posto nell’orchestra. Siamo quasi alla soglia degli anni ’60, ma eccoci davanti ad un’altra classica, disperante e romanzesca storia da ‘kamikaze della musica’, quali erano i jazzmen del periodo ‘eroico’. Le notti tedesche gli offrono anche l’opportunità di cimentarsi con qualche serata in clubs: “fortunatamente avevo anche la faccia tosta di salire sul palco”, ammetterà onestamente in seguito il nostro. Nel 1958 Jarman lascia finalmente l’Esercito, comprendendo di non esser tagliato per le esperienze militari cui è stato esposto. Ma qualcosa in lui si è spezzato in profondità: al rientro in patria perde l’uso della parola e comincia una lunga serie di peregrinazioni per gli Stati Uniti, punteggiate dal ricorso a droghe ed altri gravi sbandamenti. Ad El Paso, dopo un episodio di ordinaria brutalità poliziesca (è in grado di farsi capire solo scrivendo su un notes), improvvisamente il punto di svolta: in uno squallido bar il suono di un lacerante, ruvido sax alto texano lo richiama alla vita ed alla musica. Pazientemente si sottopone a lunghe terapie psichiatriche di recupero a Milwakee e finalmente riprende in mano il sax alto, frequentando nel frattempo corsi di filosofia. Dopo qualche mese riesce a riprendere l’uso della parola “…e da allora non ho più chiuso bocca”.
Scusate la prolissità, ma mi è sembrato importante dimostrare come alle radici di certe successive esperienze musicali radicali non ci sia stata tanto la smania di farsi invitare ai Seminari di Darmstadt, quanto un vissuto estremo ed ai limiti dell’inesprimibile, in cui la musica finisce per diventare l’unica possibile via di fuga e salvezza. E’ bene ricordarci di queste storie, quando ascoltiamo certi dischi.
Nel 1961 è di nuovo a Chicago, iscritto ad un corso di musica del Woodrow Wilson College, dove ritrova dei vecchi compagni di scuola, che hanno anche loro smesso la divisa da poco, fortunatamente con trascorsi meno traumatici del suo: Roscoe Mitchell e Malachi Favors…. Mancavano ancora all’appello il ‘guru’ Richard Abrahms ed un arrivato trombettista di rhythm ‘n’ blues sposato con una cantante soul di buon successo con tanto di Bentley nel garage, Lester Bowie… si preparavano anni a venire di eccitanti esperienze umane e musicali in una Chicago ribollente di musica e di altro. Jarman si scopre anche poeta, ed un bel giorno mette a frutto i suoi corsi di teatro presentandosi per la prima volta ai compagni di band con la faccia dipinta, come un guerriero africano. Manca ancora un furgoncino Volkswagen stracarico di strumenti e masserizie, che nel maggio del 1969 sbarcherà a Le Havre per dirigersi poi a Parigi, iniziando una grande avventura europea che tante Wikipedia possono raccontarvi.

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Una storia in cui anche la allora naif Italia avrà qualcosa da dire: qui vedete due dei dischi più belli incisi dal solo Jarman, in un caso con Johnny Dyani ed altri componenti dei mitici Blue Notes sudafricani, l’altro con Don Moyè ed un vulcanico, indimenticabile Don Pullen. Per entrambi Jarman scelse la milanese Black Saint dei Bonandrini sr. e jr., la ‘Impulse italiana’ che negli anni ’80 ha riempito il suo catalogo delle cose migliori e più vitali di quell’epoca (David Murray, World Saxophone Quartet, Steve Lacy, Mal Waldron, Lee Konitz, Paul Bley e chi più ne ha, più ne metta). Una delle poche cose di cui possiamo ancora vantarci di questi tempi.

Joseph, alla fine sei riuscito a riacciuffarli di nuovo i tuoi amici Lester e Malachi…

Milton56

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