Tempo di Chet e di Paolo Fresu

Un uomo che dava l’impressione di non avere trovato la propria collocazione nel mondo”. In queste parole pronunciate da Madame Ricard, curatrice, negli anni ’60,  del club parigino “Le chat qui peche”, c’è l’essenza del ritratto di Chet Baker, ricreata nello spettacolo “Tempo di Chet”, allestito dal Teatro stabile di Bolzano su testi di Leo Muscato e Laura Perini, regia di Muscato e musica di Paolo Fresu, che ha ripreso da Genova la seconda tranche del tour nazionale estesa fino alla fine di febbraio. Il personaggio di Madame Ricard è solo uno dei moltissimi che compongono la narrazione drammaturgica della tormentata vita di Chet, interpretato in scena da Alessandro Averone, (con Rufin Doh, Simone Luglio, Debora Mancini, Daniele Marmi, Graziano Piazza, Mauro Parrinello e Laura Pozone) in una scena che ricostruisce l’interno di un jazz club d’epoca, fra bancone da bar ed insegne al neon e, sul palco, un trio (con Fresu, Dino Rubino al pianoforte e Marco Bardoscia al contrabbasso) che in presa diretta ripercorre pagine note, da “My funny Valentine” a “Everyting happens to me”, o brani originali  dedicati all’universo del trombettista statunitense. Uno dei pregi dell’operazione, singolare esempio di fusione fra teatro e musica, sta nella cura meticolosa posta nella ricostruzione del percorso umano ed artistico di Chet. Si parte da un bambino di 10 anni, dalla voce già segnalata come particolare e destinata a concorsi canori, accudito da un padre appassionato del trombone di Jack Teagarden, si seguono le vicende di un adolescente destinato alla vita ed alla banda militare, presto ripudiata per i club di Los Angeles. Compare un fantasma di Charlie Parker in strana versione dreadlocks, seguito da una schizoide apparizione di Gerry Mulligan, si evoca il periodo del cool ed il primo degli apici della carriera di Chet, la vittoria nel referendum di Down beat nel 1954 davanti a Miles Davis e Dizzy Gillespie. Poi l’inizio dell’abisso della droga, con la morte per overdose a Parigi del pianista Dick Twardzik, ed il toccante dialogo fra i disperati genitori di quest’ultimo e Chet, che doveva fargli da tutore, indifeso davanti ad un vizio che da lì in poi, tornato in America non lo abbandonerà più. C’è il ritorno in Europa con la celebra vicenda dell’incarcerazione a Lucca, ed il successivo tentativo di ripresa culminato nell’incisione per la Rca di “Chet is back” del 1962, registrato con un gruppo di musicisti europei con Amedeo Tommasi e Daniel Humair, rappresentati in un divertente sketch comico. E poi sfila la lunga sequenza di degrado, con un peregrinare incessante in Europa e Stati Uniti fra brevi scritture, incisioni che raramente brillano come quelle del decennio precedente, e continui episodi legati alla droga che coinvolgeranno anche la seconda moglie Carol Jackson, da cui ebbe quattro figli. L’epilogo è noto e ricostruito per flash: l’episodio del pestaggio che gli procurò la frattura della dentatura e l’impossibilità di tornare a suonare, reso in modo astratto ma efficace, l’impiego alla pompa di benzina, il tentativo di tornare a suonare con la protesi, la morte del padre, e l’assenza di Chet dai suoi funerali, fino all’epilogo dell’ultimo volo dalla finestra del Prins Hendrick Hotel di Amsterdam il 13 maggio 1988.  La simbiosi fra parte musicale e drammaturgica è ben riuscita, pur con qualche problema di sovrapposizione acustica, mentre, a fronte della esemplare ricostruzione storica, la scelta di raccontare la vicenda tramite una lunga sequenza dei personaggi chiave che arrivano sul palco, si presentano, e raccontano la propria storia, con Chet poco loquace, perennemente in scena riverso sul bancone, con la bottiglia in mano o accasciato per terra, a tratti appesantisce lo sviluppo della narrazione. Ma per entrare nel mondo di Chet è indispensabile la sua musica, quel tenue soffio della sua tromba che esce da un volto deturpato, come nella copertina dell’ultimo concerto di Hannover ad aprile 1988 (pubblicato nel doppio Enja The last great concert – My favourite songs vol I & II). I nove minuti di “My funny Valentine” giustamente ricordati nel corso dello spettacolo “Tempo di Chet”, restano forse il suo testamento più eloquente. In chiusura, in omaggio a Fabrizio De Andrè, scomparso 20 anni fa e celebrato in questi giorni a Genova, una toccante versione de “La canzone dell’amore perduto”. La presenza di Paolo Fresu, che ha prodotto un cd con la colonna sonora, ha garantito al Teatro Modena una platea pressochè esaurita per tutte le sei repliche dello spettacolo.

 

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(foto di Luigi Migliaro)

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