Il look holliwoodiano del giovane Pepper
‘Straight life’: era il titolo amaramente ironico dell’autobiografia di Art Pepper. ‘Straight’ come lineare, normale, regolare: naturalmente nessuna parola è più lontana di questa dal definire una vita in cui i giorni trascorsi dietro le sbarre od in disintossicazione sono stati di gran lunga più numerosi di quelli trascorsi in libertà: tra l’altro il tutto per consumo di stupefacenti in dosi che sembrerebbero farmaceutiche a paragone di quelle impunemente e quasi ostentatamente in uso nel nostro jet set, o sedicente tale. Ed è appunto in una di queste ‘pause’ – una delle ultime prima di un lungo periodo oscuro durante il quale comincerà una parabola discendente che porterà Pepper ad una fine precoce – che nel 1960 il nostro concepì ‘Art Pepper plus Elven’, una delle poche occasioni in cui l’altoista si cimentò con i grandi organici, appoggiandosi ai raffinati arrangiamenti di Marty Paich. Per l’inesorabile dialettica che anima le cose del jazz – di quello vero – ne scaturì un album di musica elegante e quasi apollinea, lei sì forse veramente ‘straight’: una nitida e meditata summa di classici del jazz moderno fiorita in quella levigata California che tante volte era sembrata lontanissima dalle aspre tensioni newyorkesi di quindici anni prima.
Un album unanimente lodato da tutti i breviari discografici jazzistici
Francesco Cafiso è forse il più brillante ed estroso sax alto di cui disponiamo in Italia, e ciononostante è personaggio appartato e forse sconosciuto ai più. Poca attenzione mediatica? Purtroppo non è l’unico a soffrirne. Fa musica di scarsa comunicativa ed accessibilità per il pubblico? Tutt’altro, anzi….. proprio questo programma, oltre a risultare molto godibile, può avere anche un carattere didattico-divulgativo per un pubblico non troppo addentro alla musica afroamericana, dal momento che rappresenta una elegante rivisitazione di autentici capisaldi del jazz moderno.
Cafiso, un bopper purosangue da sempre….
Questo alone di imperscrutabile mistero non ha impedito al dinamico e combattivo Jazz Club Ferrara di offrirgli l’occasione di realizzare un sogno, quello di cimentarsi dal vivo con una big band (la rodata Colours Jazz Orchestra marchigiana) nella riproposizione del piccolo capolavoro pepperiano. Ancora una volta il Torrione ha fatto la differenza, accollandosi un impegno organizzativo notevole e su di un repertorio lontano dalle banalità ‘cheap’ che corrono perlopiù nel nostro circuito festivaliero (anche di quello molto meglio dotato di mezzi). La scommessa è stata premiata da una sala piena che ha visto la band fisicamente mescolarsi al pubblico per mancanza di spazio: sia per gli ascoltatori che per i musicisti è stata un’esperienza di caldo ed immersivo coinvolgimento difficilmente dimenticabile ed inconcepibile altrove che nel magico club ferrarese.
Dov’è il palco?
Cafiso sembra quasi volersi scrollare di dosso la reputazione di enfant prodige del sax alto e di impeccabile virtuoso dello strumento per confermare ulteriormente la sua vocazione a organizzare e guidare nutriti ensembles (vedi l’ambizioso triplo cd del 2015 con episodio ‘La Banda’, ed anche il più recente ‘We play fort tips’). E’ una scelta impegnativa ed in controtendenza rispetto all’attuale situazione organizzativa della nostra scena jazzistica: non a caso la quasi totalità del circuito festivaliero italiano continua a non accorgersene, immerso com’è in melensi tributi ahimè confezionati su misura per compiacere un pubblico alquanto ageè e regredito ad un ascolto pigramente nostalgico. Quella di Ferrara è stata l’unica data dell’orchestra marchigiana fuori dai confini della sua regione: si conferma così una frammentazione localistica della nostra scena jazzistica, fatto deleterio e del tutto assurdo, considerate le sue minime dimensioni. Meglio non soffermarsi sulle ragioni del fenomeno, potrebbero sfuggirci ipotesi maliziose…. Per fortuna c’è il Torrione, speriamo che in qualche modo faccia scuola.
L’ultimo Pepper: molti anni di ‘straight life’ hanno lasciato il segno…
“Art Pepper plus Eleven” incarna esemplarmente il modello di ‘opera’ jazzistica: non esiste alcuna partitura delle sue musiche, c’è solo l’album (oggetto oggi guardato oggi con malcelata sufficienza…). Dobbiamo alla pazienza ed alla tenacia di Massimo Morganti, anima e direttore della Colors, una laboriosa trascrizione da disco che deve aver comportato innumerevoli ascolti (la musica di Pepper e Paich sarà anche scorrevole, ma è tutt’altro che semplice..). Forse questa circostanza ha portato l’ensemble ad intensificare le prove di insieme per rodare le inevitabili approssimazioni di una trascrizione ad orecchio. Risultato finale: grande compattezza e scioltezza dell’orchestra. Bravi tutti, ma la sezione ottoni con due trombe e due tromboni (di cui uno basso con Bastioli, l’altro è Morganti), merita una menzione speciale, cosi come la fluidità solistica di Giovanni Hoffer ad uno strumento non semplice come il corno francese. Anche il bassista Pesaresi e l’infaticabile batterista Manzi hanno saputo sfoderare l’autorevolezza e la potenza di suono che una big band esige dalla sua ‘ritmica’.
Un disco che difficilmente avrete visto: è della giapponese Venus…
Ad ogni ascolto dal vivo noto una sempre crescente maturità del solista Cafiso, che rivela la sua stoffa di autentico, irrefrenabile bopper, non ‘hard bopper’, si badi alla differenza: lo stile inaugurato da Parker, Gillespie & c. è tuttora musica sfidante ed impegnativa, che riesce a metter a dura prova un ascolto superficiale e convenzionale. A parte la ben nota, magnifica voce strumentale dell’altoista siciliano, hanno spiccato l’estremo e vertiginoso dinamismo del suo fraseggio, che oltre alle angolosità ed ai bruschi salti boppistici, evidenzia anche dei velocissimi legati che avrebbero fatto invidia a molti uomini del Free, soprattutto per la loro assoluta, impeccabile precisione di esecuzione: e qualcosa mi dice che il nostro debba avere da tempo una sottile fascinazione per molta ‘musica di fuoco’ degli anni ’60.
Nonostante la sua intimidente statura solistica, Cafiso è riuscito a riprodurre in concerto lo stesso rapporto di dialogo che nel 1960 Pepper intratteneva con il grande organico arrangiato da Marty Paich. Anzi, molto spesso Cafiso suonava più come la voce guida dell’orchestra che come un solista esterno. Ulteriore nota di distinzione della performance di Cafiso e dei suoi ‘Eleven’ risiede nel fatto che mentre il modello califonrniano del 1960 era caratterizzato da una curata levigatezza e scorrevolezza, Cafiso e la Colors hanno dato dei moderni standard arrangiati da Paich una lettura molto più impetuosa ed a tratti quasi graffiante. In ogni caso lo swing (ingrediente irriununziabile del jazz orchestrale) scorreva disinibito ed a fiumi, cosa che molto raramente accade sui nostri palcoscenici: rimangono impressi un adrenalinico ‘Four Brothers’, un asciutto ‘Round Midnight’ percorso da qualche vena d’astrazione ed infine un intenso ‘Donna Lee’ (guarda caso…).
Grande, calda serata, conclusasi con un affollato ed animato ‘embrasson nous’ tra musicisti, pubblico ed il coraggioso staff del Torrione: decisamente valeva i 250 chilometri di viaggio….. Milton56
Francesco Cafiso + 11
Francesco Cafiso, sax alto
Simone La Maida, sax alto
Antonangelo Giudice, sax tenore
Marco Postacchini, sax baritono
Daniele Giardina, tromba
Giacomo Uncini, tromba
Giovanni Hoffer, corno francese
Massimo Morganti, trombone
Pierluigi Bastioli, trombone basso
Emilio Marinelli, pianoforte
Gabriele Pesaresi, contrabbasso
Massimo Manzi, batteria
Produzione Ancona Jazz, Musicando Macerata e Jazz Club Ferrara