E’ il titolo di un brillante articolo di Adam Gustavson, storico della musica che insegna alla Pennsylvania University, apparso sul sito ‘The Conversation’ (vedi QUI), specializzato nelle ‘libere uscite’ di docenti universitari americani. Tranquilli, qui non si parla della sempiterna questione della positività/negatività di una preliminare istruzione formale accademica dei musicisti di jazz (querelle su cui magari ritorneremo in altra sede). No, Gustavson affronta con tono leggero ed autoironia – del tutto ignoti all’ambiente accademico nostrano – un’altra questione: quanto ha influito l’ingresso a vario titolo del jazz nell’ambiente universitario sul suo declino come musica di diffusione di massa? Insomma, l’angolo visuale è quello del ‘pubblico’ e, come vedremo più oltre, dei ‘luoghi’ del jazz.
Al termine di una agile e brillante sintesi storica (di cui sono capaci solo gli storici anglosassoni, a quanto sembra), l’autore individua un primo punto di frattura delle fortune del jazz come musica popolare nel tramonto dell’era delle big band swing e nel periodo del ‘recording ban’ del 1944. Si badi bene, Gustavson non ripropone il solito tema della dissociazione tra jazz e ballo, ma sottolinea come un insieme di circostanze portarono il jazz ad eclissarsi dai luoghi di ritrovo di massa per ritirarsi gradualmente nelle sale di incisione e nei club: il vuoto lasciato fu prontamente riempito da nuovi generi musicali di maggiore presa, come il rhythm ‘n blues e, più tardi, il soul. Ovviamente il nostro riconosce che ebbe senz’altro un peso molto importante l’insofferenza dei jazzmen più maturi ed ambiziosi per la drastica compressione degli spazi d’improvvisazione ed espressione personale tipici del contesto delle big band e la tendenza a esprimersi con musiche più complesse e caratterizzate in termini di ‘genere’. Ma questo incise soprattutto in termini di rigenerazione del pubblico del jazz, che cominciò a crescere tra le file degli studenti universitari: nei primi anni ’50 la cosa non sfuggì ad un musicista che aveva già di suo un’impronta marcatamente intellettuale come Dave Brubeck (o per meglio dire a sua moglie, dinamica ed abile promoter), che inaugurò la serie delle tournee dei gruppi jazz nei campus universitari, strada su cui si metteranno in molti suoi colleghi, come testimoniano tanti dischi ‘live’ registrati in questi contesti a partire dai tardi anni ’50.
Ma il fenomeno non era sfuggito nemmeno alle autorità ed al corpus accademico americano, che, un po’ per attrarre e compiacere gli studenti (che laggiù vanno conquistati, considerate le rette cospicue che pagano, paradossi di un sistema di istruzione classista…), un po’ per la tentazione di far emergere un genere di musica d’arte specificamente e genuinamente americano, oltre ai concerti di jazzmen spesso impegnati in ricerche musicali mal recepite dal circuito dei club, cominciarono ad offrire corsi e seminari sulla musica afroamericana che ben presto divenne un oggetto di studio, spesso bulimicamente dissezionato ed analizzato da una schiera di studiosi vecchi e nuovi, generando una cospicua saggistica a riguardo. Verso la fine degli anni ’50 comincia a nascere quindi quella che il critico Nate Chinen chiamerà con tagliente ironia la “jazz education industry”. Con non minore ‘sense of humour’, Gustavson tira questa ulteriore conclusione (pietà per il traduttore..): “… oggi in qualsiasi campus potrete trovare studenti di college che, seduti in classe alle 9 di mattina di un martedì, cercano di assorbire l’essenza di una musica concepita per essere ascoltata in un club alle 2 di notte di sabato. E’ diventata per gli appassionati di musica in erba qualcosa di simile ai cavolini di Bruxelles: sai che ti fanno bene, ma non per questo hanno un gran sapore”. Per farla breve, il jazz ha finito di esser la musica della gioventù ribelle per divenire la ‘musica dei colti’.
Ma nel frattempo cosa ne è stato degli ultimi ‘santuari’ del jazz militante, i clubs ed i festivals? Gustavson cita il New Orleans Jazz and Heritage Festival, dove quest’anno sono di scena artisti estranei al jazz come Kate Perry od i Rolling Stones. Ricorda qualcosa? 😉 Dei pur lontani nipoti della musica black come gli Stones sono certo meglio che l’ultimo OGM creato nei laboratori dei talent show…. Gli ultimi irriducibili che rifiutano di battere questa strada, come il Minton’s Playhouse, battono anche loro sul tasto del jazz come ‘musica classica dell’America’, come parte del suo più profondo DNA culturale, per attrarre l’assottigliato pubblico (e forse anche per giustificare il prezzo delle bistecche servite nel locale, come causticamente osserva il vispo Gustavson – ed anche qui mi sovvengono paralleli nostrani….).
Su questo quadro crepuscolare, però, il nostro autore innesta una riflessione piuttosto acuta: nonostante il fatto che ormai il jazz si sia molto allontanato dalle sue radici popolari, in realtà ce ne è ancora molto in giro, solo che non lo chiamiamo più così…. L’orecchio fine di Gustavson ravvisa infatti inequivocabili ascendenze jazzistiche nel Kendrik Lamar autore di “To Pimp a Butterfly”, album rap che ha dilagato nel 2015, valendosi tra l’altro di una dichiarata collaborazione di Kamasi Washington. Non solo, ma il nostro storico della musica ipotizza anche un influsso di questo esempio nella scelta di David Bowie di circondarsi di jazzisti di vaglia come Donny McCaslin ed i suoi per il suo ‘album testamento’ “Black Star”. Si cita anche il ‘jukebox postmoderno’ degli Snarky Puppy che rielabora brani pop in “.. long-form jazz works … a way to keep jazz alive- and to embrace jazz’s lighter side”. Gustavson conclude dicendo che se il nome ‘jazz’ è stato requisito dall’Accademia che lo ha trasformato nell’etichetta di una musica d’arte, il suo spirito è ancora vivo, forse più del suo ‘nome’. Tesi brillante e stimolante, tutta da discutere.
E da noi cosa succede? Premettiamo che il jazz alle nostre latitudini non è mai stata ‘musica del Popolo’, entità metafisica di cui tanto si parla oggi, proprio mentre allegramente si mette mano a smontare quel poco di coesione culturale e sociale nazionale, stentatamente maturato in 150 anni punteggiati di guerre ed altri sconvolgimenti vari. Meno che mai si corre il pericolo di un ‘sequestro accademico’ della storia e della cultura del jazz in ambito di formazione generale, non riservata a futuri musicisti professionisti: ma anche in questo ambito specialistico c’è poco di che stare allegri, a sentire le frequenti lamentele circa la carente cultura musicale dimostrata dagli studenti dei corsi di strumento, lamentele che paradossalmente vengono dai loro insegnanti, jazzisti militanti della vecchia leva che invece a riguardo si sono formati da autodidatti e ‘sul campo’, tra mille difficoltà ambientali. Ed anche qui c’è una questione dei ‘luoghi’: purtroppo il poco jazz che si fa da noi è soprattutto ‘musica da teatro’, contesto che imprime una nota di spettacolarizzazione, sottile, ma onnipresente al punto di coinvolgere a suo modo anche musicisti e musiche che sembrerebbero aliene da simili inclinazioni (eh sì, c’è anche uno ‘spettacolo dell’avanguardia’). E’ un fatto naturale ed inevitabile, considerato lo sforzo di superare le maggiori distanze tra pubblico e musicisti in ambiente dilatato. Della sostanziale mancanza da noi della vera incubatrice dell’evoluzione jazzistica che è il ‘club’ ho già parlato tante di quelle volte che non sto ad annoiarvi: e poi ripetersi invecchia… Pur con tutte queste premesse contrarie, mirabilmente siamo invece riusciti a giungere egualmente all’abuso del nome ‘jazz’ che Gustavson constata anche negli States: ma qua non è questione di cattedre bulimiche, bensì di registratori di cassa, bulimici anche loro, ma con la ridicola pretesa di darsi un tono ‘intellettuale’. Che sia anche qui una questione di ‘ritocchi al listino delle bistecche’?….. Milton56