Ripetersi è cosa che mi pesa e mi sembra tediosa, ma l’esperienza degli ultimi lustri in Italia dimostra che con questa tecnica ossessivamente applicata (purchè con supremo sprezzo della propria dignità) si arriva molto lontano, anche sulle ali di solennissime castronerie, per non dire di peggio. Ed allora adattiamola una volta tanto al servizio di qualche ideuzza ‘chiara e distinta’, come diceva un concittadino di Macron (pardon, Monsieur Descartes..). Nonostante la ‘chiarezza ed distinzione’ delle stesse, lo stesso filosofo osservava di contro che ciò presuppone il buon senso, che notoriamente è la cosa meglio distribuita al mondo, visto che nessuno ne desidera più di quello che ha. In Italia ne siamo tanto ricchi che addirittura lo buttiamo dalle finestre e ce ne prendiamo persino gioco con onanistici contorsionismi intellettuali…..
Primo. Il Jazz sarà anche molte cose diverse, ma non è ‘qualsiasi cosa’, non è la curcuma o lo zenzero buoni oggi per tutti gli usi. Ha suoi precisi caratteri e struttura, radici e linee evolutive intricate, ma tuttora individuabili, last but not least è nettamente estraneo ad altre rispettabili espressioni musicali. Una di queste è la canzone italiana di consumo del dopoguerra, prodotto culturale attentamente creato e sviluppato nel laboratorio del Festival di Sanremo. La cosa era talmente seria che costituì il più importante mandato affidato al primo Direttore Generale della RAI, cui nell’Italia degli anni ’40 e ’50 era stato delegato il titanico compito della ricostruzione culturale e linguistica di un paese in rovina, che aveva rasentato la disintegrazione totale nel 1943-45. Una delle linee seguite in questa operazione fu proprio quella di ridimensionare, minimizzare e possibilmente espungere dalla cultura musicale di massa degli italiani le musiche sincopate portate dagli americani: obiettivo condiviso non solo da ambienti cattolici guidati con pugno di ferro dai Pacelli e dagli Gedda, ma anche da un intero establishment culturale di impronta idealistico- crociana, che esercitava una sotterranea, ma forte influenza persino sul PCI (dove innovativi e moderni organizzatori di cultura come il Vittorini de ‘Il Politecnico’ vennero messi a tacere senza tanti complimenti….. e la cosa non va messa in conto al solo Togliatti ed ai suoi macchiavellici continuismi). Al riguardo rimando alle pagine 209-210 di ‘Jazz all’Italiana’ di Anna Harwell Celenza, un’americana che ha avuto il merito di andare a rimestare in pagine del nostro album di famiglia che in molti non hanno voglia di sfogliare. Purtroppo su questi argomenti ha un po’ ‘tirato via’…
Canzonette? Una cosa molto seria, invece…. Sanremo 1951, prima edizione
Secondo. La musica di consumo si paga da sola, continua a guadagnare corposamente, anche se meno che in passato: del resto, le fasce sociali cui si rivolge – giovani in particolare – non hanno più le disponibilità economiche di 10-15 anni fa. Quindi essa continuerà pacificamente a riempire stadii ed arene estive senza necessità di alcun sostegno esterno. Non solo, ma continuerà a far leva sul bisogno di comunità dei suoi fan per continuare ad esigere prezzi che poco hanno da invidiare a quelli di una prima della Scala (che conta peraltro solo 2.000 posti o giù di lì) e che vanno a finanziare soprattutto faraonici apparati scenici in cui la musica propriamente detta annega o quasi. Ergo, per sopravvivere materialmente (e direi per prosperare…) non ha nessuna necessità di munirsi di etichette posticce (e direi del tutto abusive). Meno che mai di esser sovvenzionata con denaro pubblico, salvo proporsi come ‘musica di regime’ con buona pace di tante prese di posizione di facciata.
Terzo. Il jazz invece rientra tra le musiche di valore culturale, non solo e non tanto per la sua consistenza intrinseca, quanto per il fatto che ha bisogno di un supporto attivo per raggiungere il suo pubblico. Questo in primo luogo perché i costi tecnici di uno spettacolo musicale organizzato a norma sono enormemente superiori a quelli degli anni ‘70/80 in cui bastava un impianto audio rabberciato alla buona ed un Palasport per presentare concerti anche di rilievo internazionale. Questi costi pesano, uniti a quelli di cachet dignitosi per i musicisti (che nel caso di artisti che attraversano l’oceano devono tener conto di costi e difficoltà di trasferta sempre crescenti), ed assorbono quasi totalmente i prevedibili ricavi attesi dalla vendita dei biglietti, salvo exploit che non possono esser messi in conto in partenza. Aggiungiamoci che il pubblico più genuino e fedele del jazz non ha il portafoglio a fisarmonica necessario a fronteggiare prezzi superiori agli €.30,00 ed oltre, e nelle rare occasioni festivaliere con forte concentrazione di buone occasioni di ascolto viene costretto a fare scelte drastiche ed escludenti (complici anche programmazioni con assurde sovrapposizioni). Quindi inserire il musicista di grande richiamo commerciale in un festival o rassegna jazz significa – oltre a mangiarsi una quota sproporzionata del budget – inevitabilmente togliere spazio vitale ad una musica che diversamente ed altrove non ne ha. E questa è di fatto una scelta culturale ben precisa, che oggettivamente equivale a quella di mascherato ostracismo ideologico con cui già ora stiamo di fatto facendo i conti.
Quarto. Se proprio non si riesce – o non si intende – preservare questa nicchia di sopravvivenza per una musica non ‘di cassetta’, propongo di mandare in soffitta la qualifica di ‘direttore artistico’ (quelli veri sono ormai una razza in via di inesorabile estinzione) e di parlare solo di ‘promoter’ o meglio di ‘impresari’, che rende meglio l’idea. La chiarezza e pertinenza di linguaggio semplifica tanti problemi organizzativi ed evita equivoci da millantato credito, conseguenti polemiche e perdite di tempo.
Quinto. Altra questione di chiarezza lessicale. Nei nostri enti locali abbiamo gli Assessorati alla Cultura, che tra l’altro non hanno proprio un peso trascurabile nelle carriere pubbliche e politiche. “Come dice la parola stessa” devono occuparsi di ‘cultura’, è cioè di quello che i meccanismi di mercato non riescono a garantire e creare secondo le loro logiche: il loro mestiere – tutt’altro che facile, ne convengo – è creare le citate ‘nicchie di fattibilità’ per manifestazioni la cui sopravvivenza è totalmente nelle loro mani. Non nascondiamoci dietro il mecenatismo privato: in Italia le grandi aziende con serie radici in questa società stanno rapidamente sparendo una dietro l’altra e quelle che sopravvivono sono spesso gestite ‘alla Quintino Sella’, mutilate ed amputate da torme di ‘tagliatori di teste’. Di peggio: ai loro vertici stanno ormai sparendo gli ultimi esemplari di quella c.d. ‘borghesia illuminata’ a cui il meglio della cultura italiana dei decenni scorsi è molto debitore. Da ‘nuovi ricchi’ che sembrano usciti pari pari dalle cronache dei tempi di Eliogabalo o della Bisanzio della decadenza non c’è niente da aspettarsi, tranne una sfrenata esibizione di ricchezza, necessaria a convincere i suoi stessi autori di ‘esser arrivati’: nel migliore dei casi il loro ideale estetico è il Kitsch, più frequentemente il Pacchiano tout court.
Massenzio anni ’80, la mitica Estate Romana di Renato Nicolini. ‘Buona la prima, tagliamo il resto’, come si dice al cinema….. Tra l’altro il compianto Architetto realizzava tutto in casa con due soldi.
Sesto. La Cultura non è l’Evento. L’Evento è, ma solo nel migliore dei casi, il fiore di una stagione, la Cultura un albero che sfida le generazioni. Dove c’è l’uno, non c’è l’altra, tentare di metter insieme le due cose è un errore marchiano. Questo è un discorso che non tocca tanto gli organizzatori, quanto i citati Assessorati alla Cultura: appaltare la loro attività nei termini in cui l’abbiamo descritta sopra è una scelta fallimentare. In primis, perché l’Evento costa, e tanto, fa parte della sua eccezionalità e glamour. E poi, guardando al panorama della cultura e soprattutto della vita musicale italiana di oggi, l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno sono gli Eventi: siamo un Paese che ne pullula, e dove guarda caso da tempo non succede più nulla. Vogliamo scendere sul deprimente piano dello spirito corporativo? Bene, l’Evento è materia degli Assessorati al Turismo ed allo Spettacolo, che a riguardo sono molto più bravi e soprattutto dispongono dei cospicui fondi necessari ad alimentare la macchina di cui si è detto. Ripeto: la Cultura è un’altra cosa, dura nel tempo e scava nella memoria, ivi compresa quella dei contribuenti e, per quanto mi riguarda, anche degli elettori.
Il ‘mestieraccio’ dei jazzmen italiani d’antan consentiva di fare anche questo….. con la mano sinistra, ovviamente….
Settimo. Un Giorno da Leone e cento da Pecora. Il jazzista ha sempre menato vita grama in Italia, anche in periodi più floridi e brillanti di questa interminabile, epocale Depressione. Decenni fa i jazzmen in modo discreto e dignitoso arrotondavano con i turni in studio di registrazione, con la pubblicità, con le colonne sonore. Oggi queste nicchie sono state chiuse dal massiccio ricorso ad una ‘musica ex machina’ che, se decenni fa poteva sembrare un’affascinante frontiera dal punto di vista creativo, oggi che pervade ogni spazio pubblico ha francamente tediato chiunque abbia un minimo di sensibilità musicale. La sua unica ragion d’esser è il risparmio dei costi, è ‘musica a metraggio’ per i supermarket. Quindi accettare l’offerta di collaborare con nomi della musica di consumo che fanno cassetta è umano e comprensibile, ‘primum vivere’, come diceva Nostra Madre Chiesa tempo fa. Ma questo non vuol dire che si debba fare della Necessità una Virtù: non ci si deve convincere che il divo della canzone di cui nell’ombra si rabberciano le musichine sia il Messia, né che la collaborazione con lui – sempre a senso unico – sia una folgorazione sulla Via di Damasco. I jazzmen della passate generazioni certi LP dalle copertine ‘seduttive’ li firmavano sotto pseudonimo, ed erano in fondo dischi professionalmente decorosi e direi socialmente utili, visto che in certe serate funzionavano eccome…… Un ultima notazione a proposito del ‘Tengo Famiglia’: come recitava il titolo di un film neorealista degli anni ‘40/50, “I Bambini ci Guardano”. E da grandicelli ci giudicano, così come noi della mia generazione abbiamo fatto con i nostri padri, che in fin dei conti hanno ricostruito un intero Paese dalle macerie – materiali e morali – del ‘Credere/Obbedire/Combattere’. Ed in questi momenti pesa di più – ed educa – il ricordo di ‘Un giorno da Leone’ che i piatti di minestra dei ‘cento giorni da Pecora’ da meschino ‘Italiano Generico Medio’, mirabilmente crocifisso alle interpretazioni del miglior Alberto Sordi.
Anche l’Italiano Medio di Sordi si è concesso i suoi ‘giorni da leone’: “Una Vita Difficile” di Dino Risi, 1961, una ferocia di cui avremmo ancora tanto bisogno…….
Ottavo (ed ultimo). Il Pubblico, questo ‘Parco Buoi’ della Musica. Espressione un po’ forte? Ma se l’hanno coniata nel retrobottega del sacro tempio della Finanza….. Serve solo a rendere evidente il taglio sanamente utilitaristico dell’argomento, ove altri più elevati non abbiano scalfito. Oggi come oggi, il mitico Pubblico si divide in due fasce ben distinte: quella che ‘consuma’ la musica, e quella patetica minoranza che si ostina a ‘viverla’, una necessità come l’aria, l’acqua, il cibo, un tetto…. I ‘Consumatori’ spendono parecchio e facilmente, ma sono volubili e capricciosi: lavorando per loro certamente ci si paga un bel weekend in un hotel di charme, ma ‘semel in anno’. Le bollette, il mutuo, l’affitto, invece, li pagano i patetici zucconi che si attardano a cercare una musica che sia un’esperienza di vita, che ne hanno bisogno ed a volte fanno sacrifici per lei. Un utile promemoria per organizzatori, ed anche per musicisti a caccia di popolarità: prendetelo un po’ come un equivalente dell ‘argomento della scommessa’ di Pascal, ancor oggi ineguagliato nel dimostrare la necessità, se non l’esistenza, di Dio. Milton56
La RAI degli anni ’60 brucia sul tempo tanta New Age scandinava dei decenni successivi