Il tostissimo Detective Shaft non bussava mai: entrava sempre dalla finestra. Richard Roundtree nel film del 1971 con tanto di giacca di pelle, dress code all’epoca inequivocabile…..
Qualche trendsetter arriccerà il naso….. roba vecchia, demodè, appassita. Io di tanta sapienza mondana francamente BIP! e passo ad annunziarvi dei dischi di musicisti che più ‘puri & duri’ non si può.
“Barracoon” è un libro a lungo inedito che dà voce alla storia di uno degli ultimi ex schiavi ancora in vita negli anni ’30….
Cominciamo con “Barracoon” di J.D. Allen: lo ammetto, è uno dei miei beniamini. Musicista poco noto alle nostre latitudini, nonostante molti anni fa abbia mosso i suoi primi passi in studio di registrazione proprio da noi: da entrambe le circostanze si desume il lento ed inesorabile isolamento autarchico in cui stiamo scivolando. Il sax tenore ormai 46enne ha ormai alle spalle una lunga carriera e molti album: negli ultimi anni ha costruito un solido rapporto con Savant Records, etichetta da tenere attentamente d’occhio. Dopo due album in quartetto (dove spiccava il contributo del chitarrista Liberty Ellman che aveva impresso alla musica di J.D. una nuova e notevole apertura, “Radio Flyer” a mio avviso è un must), il nostro è tornato all’impegnativa dimensione del trio, in cui ha già dato tante ottime prove. Questa volta i compagni sono cambiati: al posto del formidabile Rudy Royston alla batteria troviamo il giovane Nic Cacioppo; il basso ora è diventato elettrico ed è affidato ad un’altra ‘recluta’, Ian Kenselaar che rimpiazza Gregg August. Il rinnovo radicale di una formazione così critica come il trio potrebbe creare qualche apprensione: da un primo rapido ascolto posso dirvi che l’azzardo assunto da Allen ha pagato, e non è scommessa di poco conto, considerata l’altissima qualità ed affiatamento della precedente configurazione. Il mondo musicale del sassofonista è sempre quello cui ci ha abituato nel suo precedente percorso: quindi i cacciatori del ‘Nuovo costi quel costi (anche la noia…)’ possono rivolgersi altrove. Questa è musica che scava in profondità, concede poco alla scena: sempre con il beneficio di futuro approfondimento, nel tenore di Allen mi sembra di cogliere qualche asprezza e ruvidità in più e forse qualche eco del fraseggio in stentoreo staccato tipico di Shabaka Hutchings: se non fosse solo una mia suggestione, sarebbe bel complimento per il giovane inglese, non è da tutti arrivare all’attenzione ed all’imitazione di uno dei pochi veri campioni del sax afroamericano. E sì, gli studenti di sassofono troveranno qui pane per i loro denti: un suono ed un fraseggio in cui si percepisce il netto marchio di quella linea evolutiva ‘Hawkins-Rollins’ (con qualche debito anche con la solidità costruttiva di Joe Henderson) , accoppiato però ad un’urgenza narrativa che rimanda inequivocabilmente a Coltrane. Ovviamente l’intensità e la concentrazione del solismo di Allen mettono un bel peso sulle spalle dei due giovani partner, che non fanno rimpiangere la solidità strutturale che i loro navigati predecessori August e Royston erano capaci di conferire al precedente trio. Per quelli che ancora pensano che le radici più profonde ed irrunziabili di quello che chiamiamo jazz corrano nelle strade inquiete delle metropoli americane, questo è un ascolto intenso ed a mio avviso irrinunziabile.
Anche da queste parti il ‘carino’ non si sa dove stia di casa. Fortunatamente…..
Auspicabilmente Wllliam Parker non dovrebbe aver bisogno di presentazioni perché nella nostra remota provincia dell’Impero è passato ed ha lavorato molto a cavallo del fine millennio, e nei primi 2000 ha anche avuto un’apprezzabile visibilità grazie a passaggi radiofonici ed a registrazioni realizzate dalla compianta RAI Trade. Naturalmente nemmeno di lui c’è traccia nei mirabolanti cartelloni della nostra estate, troppo saturi di ibridazioni con il gregoriano, innesti canzonettistici ed altri voli pindarici che poco hanno a che vedere con il mondo di uno che ha militato a lungo con Cecil Taylor, David S.Ware e Matthew Shipp. Un’altra label di quelle giuste, la AUM Fidelity (anche qui occhio al catalogo) sta per pubblicare nei prossimi giorni un doppio live “Live/Shapeshifter” del suo gruppo “In Order to Survive”, nome di per sé eloquente ed esplicativo dell’assenza di Parker dalla bucolica Arcadia dei nostri Festival estivi. Accanto al bassista compaiono i suoi vecchi compagni Rob Brown al sax, Cooper-Moore al piano e, last but not least, Hamid Drake alla batteria (è già questa sola presenza giustificherebbe l’acquisto).
Grachan Moncur III leader nel 1964: notare i sidemen…. E’ dall’inizio degli anni ’80 che osserva un silenzio pressocchè assoluto, Per fortuna da noi temperamenti così meditativi sono rarisssimi ………. Spendida cover che annunzia il contenuto.
Ma c’è di più: il concerto di Newark 2017 era dedicato a Grachan Moncur III, che compiva 82 anni. Moncur è un caposaldo del trombone contemporaneo e, dopo una folgorante carriera negli anni ’60 e ’70 (confronta cataloghi Blue Note ed Impulse….) ha quasi del tutto abbandonato le scene e gli studi di registrazione per dedicarsi all’insegnamento: non posso non pensare a certi ossessivi presenzialismi nostrani….. Purtroppo di questo disco disponiamo solo di una clip, da cui traspare una musica tesa e vibrante, di essenzialità oggi rara. Per quanto mi concerne è un acquisto a scatola chiusa, senza alcuna esitazione: nel caso concordaste, non mandatemi troppe maledizioni per prevedibili difficoltà nel reperimento, sia via web che per canale streaming.
E visto che abbiamo iniziato con il campione di black pride Shaft, ascoltiamo anche la sua musica che fa corpo unico con il personaggio: Isaac Hayes firma una celebre, irresistibile soundtrack in cui c’è tutta la New York anni ’70, ancora coloratamente vissuta e non gentrificata. Buone vibrazioni. Milton56