In una torrida serata di fine giugno ho assistito al concerto di Paolo Fresu e Daniele Di Bonaventura organizzato ai Giardini Luzzati di Genova, uno spazio di cultura ed incontro in cui si respira aria di libertà, gestito con passione dalla Cooperativa Il Ce.Sto. La serata coincideva con la giornata mondiale del Rifugiato, alla cui causa erano dirette le donazioni libere che sostituivano il biglietto d’ingresso, ed ampio spazio è stato dedicato dagli organizzatori e dai musicisti – prima del duo la house band del Count Basie jazz club composta da giovani jazzisti – ad illustrare ragioni e sentimenti di chi ha a cuore un fenomeno del mondo contemporaneo che, solo qualche giorno dopo, avrebbe ricevuto, con i fatti della Sea Watch, l’ennesima manifestazione di ostilità a diversi livelli. Il concerto, articolato sul collaudato programma che alterna musiche di diverse epoche e provenienze, da De Andrè a “Non ti scordar di me”, dal Laudario di Cortona ad una filastrocca bretone, dal Brasile di Caetano Veloso al tango fino a “Te recuerdo Amanda” di Victor Jara, ha avuto il successo previsto, nonostante la temperatura e l’umidità tropicali che, oltre a mettere a dura prova pubblico e musicisti, spesso creavano problemi ai tasti del bandoneon. Il binomio fra la tromba assistita da effetti elettronici e lo strumento antico riflette a livello timbrico un’intesa ormai consolidata fra i due musicisti, producendo una musica lirica e comunicativa con efficace scambio dei ruoli fra sostegno armonico e parti soliste, e qualche momento di libero dialogo percussivo. Ma il motivo per cui scrivo queste righe è sorto al momento dei bis, quando dalla platea è giunta la richiesta di eseguire “Non potho riposar”, la canzone scritta da Gabriele Rachel nel 1915 che è divenuta una sorta di inno popolare della Sardegna ed un classico dei concerti di Fresu, accolta, infatti, dai musicisti con la condiscendenza delle cose previste. Quell’ istante me ne ha richiamati tanti altri, vissuti al termine dei concerti di Stefano Bollani, quando il pubblico richiede le imitazioni di Paolo Conte o Fred Buongusto oppure la sigla di Heidi. Allora mi sono voltato ad osservare i presenti con più attenzione, ed ho scorto una maggioranza di visi giovani, entusiasti ed in piena sintonia comunicativa con il proprio beniamino. Ed ho pensato al percorso in qualche modo parallelo che hanno compiuto questi due musicisti , Paolo Fresu e Stefano Bollani, ritenuti fra i maggiori esponenti della scena jazz nazionale. Entrambi oggi riempiono teatri e stadi, sono oggetto di un culto generalizzato da parte di un pubblico trasversale, nel quale mi pare, però, di scorgere una netta maggioranza di trenta/ quarantenni, e sono pressoché onnipresenti sulla scena con una miriade di progetti, dal teatro alla televisione fino all’editoria. Le loro scelte artistico/imprenditoriali, insomma, sembrano funzionare alla grande. In questo percorso, entrambi hanno un po’ perso per strada la via maestra iniziale del jazz per abbracciare una visione più ampia in cui convivono, interpretate con visione personale, buona parte delle musiche del mondo, senza confini che distinguano epoche e latitudini. Eppure le loro imprese registrano anche alcuni giusizi scettici o detrattori, che puntano il dito contro la verve cabarettistica dell’uno o il lirismo buono per tutte le occasioni dell’altro. Per quel che conta, la mia opinione è che lo status di superstar nazionali conseguito dai due, grazie ad una proposta musicale che, per quanto criticabile, non ha mai rinunciato alla qualità, rappresenti, soprattutto per le generazioni di cui si diceva, un argine contro i numerosi fenomeni deteriori che, in campo musicale, popolano il panorama. Quante probabilità ci sono che un “ragazzo” nato negli anni ottanta, percepisca che i confini del mondo della musica non sono circoscritti alle lagne sanremesi, al tormentone latino americano di turno, all’elettro dance da stordimento istantaneo? Come puo’ solo immaginare che ci sia anche dell’altro? Se non entra in gioco un padre, uno zio o un fratello maggiore avveduto, le occasioni per scoprire anche una piccola parte di buona musica sono davvero poche. Quindi seguire, da fans, musicisti come il trombettista o il pianista ( su altri pianisti “di culto” sorvolerei) significa, almeno, aprire la propria visione su mondi musicali che non si fermano al puro intrattenimento. Certo, chi ha conosciuto Fresu e Bollani dagli inizi della carriera, potrà storcere il naso davanti alle scelte intraprese da entrambi, spesso sostenute dall’idea che il jazz sia un’attitudine applicabile a qualsiasi forma. Ma tirate le somme, e pur continuando ad ascoltare, senza grandi entusiasmi, le proposte dell’uno e dell’altro, la loro funzione “educativa”, abbinata allo status di artisti di largo seguito, mi sembra, alla fine, un dato positivo.
foto : Paolo Fresu e Daniele Di Bonaventura ai Giardini Luzzati di Genova
Condivido quasi tutto ,fuorchè il finale che ritengo un po’ benevolo con le due star nostrane, e con una precisazione ,forse non trascurabile:Bollani è ,come Fresu, adattabile a tutte le stagioni ma, al contrario del collega ,possiede un bagaglio tecnico strumentale che il trombettista di Berchidda (un caso evidente, per me, di gigantesca sopravalutazione) semplicemente ignora.
Concordo invece sul fatto che l’aspetto imprenditoriale è quello che domina le scelte di entrambi.
Anche in questo caso mi sento però di spezzare una lancia a favore di Bollani, che , almeno nel trio danese , riacquista una credibilità e uno spessore espressivo che a Fresu è sempre mancato.
La sua visione cameristica / borghese del jazz può avere anche dei momenti che nel migliore dei casi si può trovare lirici ,ma che qualcuno ,come me, trova piuttosto melensi e ripetitivi.
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Credo che un giudizio sereno su Fresu non possa prescindere da più fattori: non si tratta semplicemente di un musicista bensi’ di un organizzatore di eventi, un direttore artistico, uno scrittore, un comunicatore di successo, un agitatore culturale e politico, un personaggio pubblico spesso osannato a prescindere dai meriti (che comunque sono molti). Come musicista mi pare di poter dire che ha fatto da tempo una netta scelta di campo, e cioè quella di privilegiare le innumerevoli collaborazioni a 360 gradi, in cui a volte i risultati non paiono proprio esaltanti, a discapito di un percorso più lineare e profondo alla ricerca di un suono e di una dimensione assolutamente personali in campo squisitamente jazzistico. Mi domando come trovi il tempo di studiare e di provare visto il numero impressionante di gruppi di cui fa parte, spesso come leader, le interviste che rilascia, i festival che organizza, i libri che scrive. Trovo poi assolutamente curioso il seguito di cui gode, per la maggior parte composto da persone che hanno ben poca o nulla dimestichezza con il jazz ma che, evidentemente, rimangono affascinate dal personaggio. Ecco, vedo in questo un pericolo per Fresu: i tempi moderni dimostrano come il consenso sia ondivago e fluttuante , frutto più di suggestioni che di reale passione o conoscenze. Forse una minore esposizione mediatica e una rinuncia ad alcuni progetti “facili” (che secondo me non fanno che disperdere energie e talento) potrebbe avere una funzione positiva, scremando quella parte di fans che riconoscono in lui valori importanti ma che poco hanno a che vedere con la musica. Lungi da me dare consigli, le mie sono opinioni di un semplice appassionato. Però ascoltare un concerto di Fabrizio Bosso qualche giorno dopo aver sentito Fresu ti mette in chiaro chi privilegia la comunicazione e chi la musica…..
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Osservazioni largamente condivisibili, ma sarei meno ottimista rispetto al ‘caso Bollani’. Bagaglio tecnico ed anche cultura musicale ampia e diversificata in effetti ci sono, ma, mescolati con un talento abbastanza debordante, possono facilmente costituire un cocktail pericoloso, che può indurre a credere di poter fare qualsiasi cosa senza pagare prezzi. Salvo infilarsi in vicoli senza uscita, come il caso Chick Corea insegna.
Quanto alla funzione didattica e propedeutica delle musiche di Fresu e Bollani, indubbiamente c’è del vero e del positivo, semprechè il loro pubblico non li trasformi in oggetti di culto esclusivo. Purtroppo la loro gestione di fama e presa sul pubblico non mi sembra andare in questa direzione. Milton56
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Il fatto è che l’Italia è il paese in cui tutto è storia. la storia è tutto, e tutto il pregio di una cosa sta nella sua storia: sicchè non è strano che si sia trovata a suo agio da quando il jazz ha preso a voltarsi all’indietro. Se ne può scorgere una conferma finale nella figura del pianista Stefano Bollani, virtuoso umorista che sa intrattenere il pubblico con intelligenza giocando con stili e generi del passato, cioè trattando il jazz come un repertorio finito, conchiuso in sè, in cui non è possibile aggiungere nulla di nuovo. Il futuro ci dirà se ha ragione lui.
Marcello Piras, Il Jazz
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…temo che le riflessioni di Piras sul ‘pregio della storia’ si riferiscano ad un’Italia a dir poco di 20/30 anni fa, di cui si è ormai perso anche il ricordo (direi purtroppo, in buona parte). Comunque molto rimpiante la acutezza e la cultura di Piras: se già stava scomodo nell’Italia di vent’anni fa, è impensabile un suo ritorno in quella di oggi, di gran lunga peggiore. Milton56
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Devo chiedere a mio nipote (in realtà, figlio di mia cugina) se era anche lui alla serata di Genova con la sua piccola band, che aveva fatto un video proprio sui rifugiati. Non granché.
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Mi sa che ho sbagliato evento. Era nel 2018, ma sempre in occasione della “Giornata” e nello stesso luogo. Pardon
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