CONSIDERAZIONI DI UN IMPOLITICO – 6. LARGER THAN LIFE….

Parlando di ‘incombenza’, buttiamola un pò in ridere: l’ “Ivan il Terribile” (1945) di Eisenstein, che riusciì anche a sopravvivere a questa rischiosa metafora staliniana…

Siamo alle solite: è Rob53 traccia il solco, ma è Milton che lo difende (fortunata campagna pubblicitaria di qualche decennio fa….). L’incombenza di alcune figure dominanti sulla scena jazzistica italiana era questione che l’Impolitico non poteva farsi sfuggire. Oddio, a questo proposito il dissidente tendenziale ha la sensazione di giocare in casa una partita vinta quasi a tavolino: infatti dal buio della vostra platea non sono mai giunte lamentele sulla quasi totale assenza di copertura di queste star nostrane da parte nostro blog. Immagino abbiate capito che non si tratta di un fatto accidentale, ma della precisa scelta di non accodarsi ad un battage mediatico già debordante (e talvolta francamente stucchevole) e di dedicarsi a quello che altrove viene ignorato.

E poi qui si scrive per passione e di cose cui ci si appassiona: e nonostante le diverse inclinazioni dei componenti della redazione di Tracce, guarda caso nessuno brucia di impazienza all’annunzio di una nuova imminente performance di Fresu o di Bollani. Come diceva il buon Miles, i più indimenticabili brividi provati da vestiti ci vengono da altre parti. E faccio notare che almeno per quanto mi concerne recentemente non mi sono sottratto alla mia classica ‘verifica del palco’, soprattutto per quanto riguarda Fresu (molto meno per Bollani, devo ammetterlo). E pur avendo selezionato nell’ampio catalogo del trombettista sardo le sue formule che mi risultavano più congeniali, devo dire che nel migliore dei casi mi sono trovato di fronte a delicati e decorativi bozzetti che scorrevano come acqua sul vetro, rasentando qualche momento di noia.

Ma un irriducibile materialista come l’Impolitico non si può fermare ad opinabili giudizi estetici e punta diritto ai meccanismi produttivi del mondo della musica, quelli che decidono del fare e del non fare, molto spesso passando diritto sopra a talento, ispirazione, idee innovative. Ed è proprio qui che le figure incombenti come Fresu e Bollani fanno problema.

Nel caso di Fresu, da tempo le sue produzioni hanno virato verso organici sempre più articolati e complessi, divenendo sempre più impegnative ed onerose per le manifestazioni che le ospitano. Siccome i palchi sopravvissuti sono quelli che sono, e le risorse disponibili ancor meno, questa tendenza sortisce oggettivamente il risultato di una netta sottrazione di spazi ed occasioni per altri gruppi e musicisti che non vantano lo stesso appeal sul pubblico, e soprattutto la stessa risonanza mediatica. Va da sé che a rimetterci sono soprattutto le leve più giovani (da tempo quelle più promettenti migrano all’estero già in fase di formazione e maturazione). A quest’ultimo proposito, è del tutto condivisibile l’affermazione di Rob53 sul fatto che al contrario di altri padri nobili del jazz italiano, né Fresu, né Bollani abbiano coltivato un ruolo di talent scout, ciascuno per motivi diversi.

Nel caso di Bollani, una consumante passione per l’entertainment, per la seduzione di un pubblico che alla lunga diventa complice e coprotagonista di performances sempre più venate dallo spirito del cabaret, sia pure colto e brillante, determina un altro importante fenomeno: la graduale prevalenza del ‘personaggio’ sull’artista creativo, fenomeno che ha già preso piede in altri campi della cultura, dalla letteratura alla filosofia, ed addirittura alla scienza, con esiti spesso discutibili. Quello di saper sedurre le platee può esser un utile atout da aggiungere al talento creativo, ma se diventa un modello dominante ed egemone, comincia a diventare un obbligo a prescindere. E si può esser musicisti profondi ed intensamente comunicativi anche senza questa attitudine spettacolare. Anzi, la storia del jazz è piena di figure che hanno coniugato intensa ed originale creatività con una spiccata ed a volte decisamente problematica asocialità, quasi sempre le due facce di una stessa medaglia.

Parecchio tempo fa, l’amico Andbar, commentando un concerto di Fresu, ed osservando in particolare il suo pubblico, aveva ipotizzato che le proposte del trombettista, così come quelle di Bollani, potessero avere una funzione propedeutica e di incoraggiamento ad ascolti più impegnativi e meno immediatamente seduttivi. Richiamando le citate esperienze degli ultimi concerti di Fresu che ho seguito, devo purtroppo dissentire: il pubblico che li segue è una platea a sé stante, che esige una formula estetica ben definita ed ormai cristallizzata, variata solo per elementi esteriori e decorativi: non è disponibile ad altre avventure musicali, tanto è vero che gli spettatori di Fresu non si sono poi rivisti nelle serate precedenti e successive dello stesso festival. Questo pubblico avrebbe tutti gli strumenti per avvicinare ed anche assimilare Clifford Brown, Lee Morgan od altri fondamentali antecedenti di Fresu, ma puramente e semplicemente non è interessato a farlo, punta alla rassicurante replica di una formula collaudata. La musica come ‘decor’ insomma, quanto di più lontano dall’essenza dell’esperienza musicale jazzistica.

Il punto è che questo pubblico fidelizzato (e di consistente disponibilità economica) costituisce uno zoccolo duro di presenza che quasi nessun festival (salvo qualche rarissima eccezione con un profilo fortemente caratterizzato e soprattutto già consolidato in un passato diverso) può permettersi di ignorare, sia per ragioni di quadratura di bilancio, che di successo di immagine. Se questo era vero già nell’era ante Covid, figuriamoci poi come lo sarà in un ancor nebuloso ‘dopo’, dove il problema sarà quello di contenere le perdite da presentare a qualche generoso finanziatore (tutto da inventare) e soprattutto dimostrare di esser ancora vivi sotto l’aspetto del rapporto con il pubblico. Sulle sfide insite in questa rinascita sapete benissimo come la penso: e sull’improvvisata arca destinata a traghettare la musica attraverso il diluvio i Fresu ed i Bollani che abbiamo conosciuto negli ultimi anni sarebbero passeggeri quantomai scomodi ed ingombranti.

Quindi niente polemiche personali, e men che meno condotte dietro quinte virtuali; ma nemmeno compiacenza verso tendenze e derive che tra l’altro stanno contribuendo per la loro parte ad un certo isolamento autarchico della scena jazzistica italiana che non fa bene a nessuno, nemmeno a chi in apparenza sembra beneficiarne  nell’immediato. My five cents, come sempre. Milton56      

Ed a proposito di ‘giovani’ (loro avrebbero forse qualcosa da ridire su questa ‘gioventù in servizio permanente effettivo’…), ecco Ferdinando Romano, bassista gratificato da un’importante collaborazione di Ralph Alessi (!).Accanto a lui altri talenti (anch’essi condannati a perenne gioventù…) come Simone Alessandrini (sax alto) e Nazareno Gabrielli (vibrafono). ‘Totem’ è un bel disco (prossimamente su questi schermi), ma sono dovuti andare sino in Norvegia per farselo pubblicare. Si parlava appunto di palchi stretti…..

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