Una nota rivista del settore ha così titolato nel suo numero ora in edicola. Siamo dunque plagiarii? Non esattamente, c’è un dettaglio che fa la differenza: i nostri punti interrogativi in fondo alla frase.
Dall’altra parte si afferma, di qui si domanda, cogliendo tutta la problematicità della situazione.
Come vedrete nei prossimi giorni, tra le file di chi vive di musica, soprattutto se non nel ristretto novero di quelli in prima fila nelle ribalte mediatiche, ormai dilagano situazioni di necessità che portano a considerare anche scelte difficilmente reversibili in un prossimo futuro.
Svanita la reazione vitalistica e creativa della scorsa primavera e l’inconscia certezza di un prevedibile ritorno alla normalità, in questo buio autunno la prospettiva di una vita ‘a scartamento ridotto’ e gravemente impoverita di ogni aspetto di scambio e relazione si proietta su tempi vaghi ed indeterminati. Anzi, c’è chi teorizza una ‘Nuova Normalità’, ossimoro degno della neolingua orwelliana.
In questa situazione, emergono senza remore ed ipocrisie certi caratteri originari di ogni società. Per quella italiana postmoderna, la totale noncuranza (se non la vera e propria insofferenza) per tutto quello che concerne la cultura e le arti, che pure in momenti di bonomia si vorrebbero trasformare in ‘giacimenti’ monetizzabili. Figuriamoci se poi si parla di musica, colpita da oltre un secolo da uno stigma di irrilevanza e superfluità profondamente inciso nel nostro ordinamento scolastico ormai da quasi un secolo. Se poi si esce dal recinto della musica accademica (conservata con qualche insofferenza come l’argenteria del salotto buono, status symbol da esibire agli ospiti in visita), e si scende a considerare la situazione di musiche ‘orfane e randagie’ come quella di cui ci occupiamo, l’oscurità si fa profonda.
Assisto alle peripezie di questa ‘orfana e randagia’ da quasi cinquant’anni, e mi sento di dire che questa volta si gioca il tutto per tutto, nei prossimi mesi è in ballo la sua stessa sopravvivenza. Anche considerando l’andazzo degli ultimi anni.
Mettiamo subito le mani nella brace per inquadrare la situazione: è molto improbabile una ripresa a breve dell’attività concertistica dal vivo, massime in presenza di pubblico. Questo vale a maggior ragione per le musiche ‘non di regime’: prima vengono le discoteche smeralde ed i club per scambisti, come la scorsa estate ci insegna. Ed anche accantonando i divieti d’autorità (dichiaratamente finalizzati a scoraggiare in modo indiretto la circolazione delle persone), ad esser obiettivi c’è anche da fare i conti con una risposta di pubblico incerta ed esitante, toccata con mano dagli organizzatori nella tregua estiva.
Dalla mano pubblica non c’è da attendersi più che qualche spicciolo, al più finalizzato ad un minimo sostegno di sussistenza ai professionisti del settore, giusto per scaricarsi la coscienza. C’è un problema di risorse, certo, ma anche di accettabilità da un’opinione pubblica invelenita ed abbrutita in faide tra poveri.
Per la comunità del jazz (intesa nel senso più lato, pubblico compreso) è quindi il momento del ‘self help’, come dicevano le femministe americane degli anni ’70. Proviamo a buttar giù qualche spunto per questo manualetto alternativo di autosoccorso, soffermandoci su ogni singola componente della comunità
il palco sarà di compensato, ma almeno c’è….
Musicisti. Accantoniamo al momento la questione dei ‘concerti a distanza’, che sono più che altro nelle mani di altri, come si vedrà poi; proiettiamoci già in uno sperabile futuro in cui sarà possibile suonare davanti ad un pubblico in carne ed ossa. Il primo consiglio che mi sentirei di dargli è di iniziare sin d’ora ad attrezzarsi ed a lavorare su di una sorta di ‘musica portatile’: una musica capace di staccarsi dall’alveo protetto ed attrezzato di studi e sale prove, e pensata per poter esser proposta nella sua integrità anche e soprattutto in siti improvvisati e rimediati, che con ogni probabilità saranno la norma quando il live riprenderà. Un corollario: rammentare poi che immediatezza e comunicatività oggi fanno premio su sofisticazione e complessità in termini di indispensabile consolidamento della relazione con il pubblico, che per accostarsi alla musica dovrà sobbarcarsi rischi e complicazioni, per questo occorre compensarlo emotivamente anche per risvegliare l’idea della necessità ed importanza dell’esperienza musicale piena. Un esempio buttato lì: ricominciare non appena possibile a suonare insieme, le solo performance sono ‘musica concept’ da riservare al tempo di pace, che non è certo questo. In sintesi e per metterla con il semplicismo da slide di moda oggi, parafraso uno sciagurato slogan anni ’80: “Piccolo e semplice non è tanto bello, quanto possibile”.
Tecnici del suono, informatici ed esperti web. Se ne parla poco, ma in questo momento Il futuro e la sopravvivenza di questa musica sono in gran parte nelle loro mani. Agli uomini dei decibel e dei bit spetta nell’immediato il compito non facile di creare degli spazi virtuali per consentire di metter in piedi dei concerti in streaming di effettiva ed affidabile fruibilità, oltre che di livello qualitativo adeguati a consentirne l’accesso a pagamento. Chi vive di musica non campa d’aria, e proprio per questo vanno archiviate le iniziative simboliche di mera testimonianza della scorsa primavera (concerti facebook dal tinello etc.) perché la loro inaffidabile fruibilità non è compatibile con un’offerta professionale che ambisca ad esigere un equo compenso e non un pietoso obolo una tantum. Per quel che posso capire, il web è sì uno spazio virtuale, ma quando condiviso collettivamente ha una sua ‘capienza’: ragion per cui appare vano inseguire grandi numeri di connessioni che dopo pochi minuti si chiudono a causa di lags, scarsità di banda etc. I tanti click faranno anche molta immagine, ma alla fine scoraggiano negli spettatori esperienze successive (che è quel che conta). Opportuno quindi indirizzarsi su ‘capienze’ chiuse e predeterminate, come sono del resto quelle delle sale da concerto. In appendice, un mio utopico chiodo fisso: è probabile che per almeno un po’ di tempo ci sia il problema di radunare sullo stesso palco diversi musicisti, pure componenti di formazioni consolidate. Negli States, se non sbaglio al MIT di Boston, un gruppo di ricercatori (naturalmente appassionati di musica) ha sperimentato la creazione di uno ‘studio virtuale’ che consenta a musicisti separati geograficamente di suonare insieme e contemporaneamente: ricordo di aver letto di requisiti hardware e di connessione non lievi, ma sarebbe il caso di farsi comunque un’idea di prima mano….

Organizzatori. Ovviamente parlo di quelli – non molti – talmente mossi dalla passione da accollarsi un compito che oggi come oggi definirei evangelico: cambiare l’acqua in vino e moltiplicare pani e pesci… Posso immaginare l’eclisse dei già rari sponsor privati a seguito degli annullamenti ed interruzioni degli ultimi giorni e del muro di nebbia che abbiamo davanti. Posso anche immaginare quale possa essere il livello di ascolto e disponibilità degli operatori pubblici…. Che dire a questi missionari della musica, quella non banale e di cassetta? Anche qui io mi orienterei verso una sorta di downsizing quanto alle dimensioni, e di disseminazione territoriale di concerti più piccoli, ma più frequenti e capaci di arrivare a segmenti di pubblico frammentato ed impedito/scoraggiato a mobilità territoriale anche a breve raggio. Temo che l’ ‘ambiente teatro’ nei mesi a venire risulterà proibitivo per le sue dimensioni e per i suoi rigidi costi fissi, che si sommano alla limitazioni da distanziamento: tra l’altro bisogna anche fare i conti con la capacità di spesa del pubblico, che non è certo quella del ‘prima’. Inoltre è ora di metter alla prova buona volontà (e buona fede..) della mano pubblica: quasi ovunque gli enti locali hanno disponibilità di spazi sottoutilizzati, chiusi od addirittura in stato di abbandono. E’ il momento di chiederne la disponibilità gratuita, magari consorziandosi (sia per stornare accuse di favoritismi e soprattutto per condividere possibili spese di ripristino), attrezzandosi a servirsene accettando un certo livello di estemporaneità garibaldina nella gestione e buttando alle ortiche ogni considerazione di apparenza ed immagine: negli anni ’70 è stata fatta tanta musica bellissima ed imprescindibile con risorse artigianali e senza tanti fronzoli. Se dall’altra parte si dovesse cozzare contro il classico muro di gomma variamente motivato (ipertrofia burocratica, scorie di stantio aziendalismo maldigerito etc.) non aver paura a denunciare pubblicamente la situazione, anche qui tutti insieme, come categoria: anche il pubblico della musica vota…..
Tracce di Jazz.com. Scusate l’immodestia, ma anche noi proveremo a fare qualcosa. Nell’ambito del nostro angolo di osservazione, cercheremo di dar voce a musicisti che vogliano condividere riflessioni sulla propria situazione e progetti da loro messi a punto per forare questo grande silenzio ed a riallacciare il rapporto con il pubblico. Lo stesso vale per gli organizzatori che riescano a mettere in campo quegli eventi fruibili e professionalmente concepiti di cui si è parlato sopra, fornendovi indicazioni per la partecipazione, biglietti etc. Quindi, ora più che mai, stay tuned….
Pubblico. Last, but not least. Senza di noi, nulla di quanto sopra è possibile. Ora è il momento di vedere se la musica – quella vera, non quella a metraggio dei supermercati e delle radio commerciali – ha veramente un posto nella nostra vita, soprattutto nel grigiore e nel silenzio che ci accompagnerà ancora per chissà quanto. Ho passato l’estate a girare per festival di musica e francamente non sono mai stato preoccupato come nell’entrare in certi negozi o nel salire su certi mezzi pubblici: altra attenzione nell’organizzazione e – spiace dirlo – altro livello di civile convivenza tra il pubblico. E questo per tacere dei pranzi di famiglia da Zia con il cognato negazionista no-mask e la nipotina che ha passato le vacanze dragando le discoteche della Gallura. Rammentiamo bene che oggi i jazzmen non vivono di dischi, anzi…. Quindi la nostra missione è una sola: esserci: anche se c’è da andare in uno stanzone con le sedie di legno e non le poltrone di velluto, anche se in cartellone ci sono nomi magari non eclatanti, in questo diamo fiducia ad organizzatori che già in passato ci hanno procurato emozioni e sorprese. Teniamo ben presente che il ‘sarà per un’altra volta’ non è un’opzione ragionevole per questi tempi: l’ ‘altra volta’ rischia veramente di non esserci più, per chissà quanto…… Milton56
La pandemia ha spento le luci di teatri e club e azzerato le possibilità di ascoltare musica dal vivo. Non dimentichiamo però che la situazione, almeno per quanto riguarda la musica jazz ed i suoi protagonisti migliori, qualche problema lo evidenziava anche prima.
Tre anni fa scrivevo questa notizia:
Agli inizi di giugno il pianista americano Fred Hersch aveva in programma tre concerti al Sunnyside, uno dei migliori club parigini dedicati alla musica jazz. Ebbene, per mancanza di prenotazioni sufficienti, la terza serata è stata annullata. Considerando che la sala ha una capienza di 200 posti e che, indiscutibilmente, Parigi è la capitale europea del jazz, è lecito porsi alcune domande, sopratutto tenendo in considerazione la notevole caratura del musicista
Allora forse il problema non è solo nelle limitazioni poste da un lockdown ma riguarda tutto il sistema: pubblico in primis, ormai sempre più anziano e con scarso ricambio generazionale. Ne vogliamo parlare ?
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Ebbene Rob, quando scrivevo di “.. considerare anche l’andazzo degli ultimi anni”, di “…risposta incerta ed esitante del pubblico” alla ripresa di quest’estate alludevo proprio a questo. Come in altri campi, il virus ha fatto esplodere in maniera clamorosa ed iperbolica contraddizioni e criticità già ampiamente visibili. Tu indichi giustamente il problema dello scarso rinnovamento generazionale del pubblico jazz, aspetto su cui io forse ho scivolato un po’ d’ala per un motivo molto preciso. Il quadro da me tracciato ha un grande ed incombente ‘convitato di pietra’: il ruolo dell’emittenza radiotelevisiva, e con più precisione quella pubblica sostenuta da una tassa coattivamente riscossa. Di questo non ho parlato volutamente, perchè la situazione è tale che non riuscirei a parlarne con quei toni pacati ed equanimi cui ci siamo impegnati all’inizio di quest’avventura anche nei momenti di polemica più tagliente. Il pubblico giovane non c’è o c’è poco perchè il jazz non fa minimamente parte del paesaggio sonoro quotidiano plasmato da radio e tv. Tanti di noi hanno sentito le loro prime note di jazz in tante sigle radiofoniche e televisive della RAI anni ’60 e 70: è scattata la prima scintilla, poi sono venuti libri e dischi rimediati un po’ da ogni dove, anche perchè il nostro rapporto con la musica era decisamente più intenso e stretto di quanto non accada oggi, allora la musica era un ponte di comunicazione tra persone di culture e lingue differenti e lontane, ha creato l’unica Internazionale di vero successo dei tempi moderni. Già da un paio di generazioni successive alla nostra il rapporto è diverso, la musica è più un background che un’esperienza esclusiva ed assorbente da fare in quiete e concentrazione. Approcciando il pubblico giovane vengono poi in evidenza due problemi. Primo: il costo della musica. Dubito che il biglietto dei concerti parigini di Hersh fosse granchè abbordabile da chi vive di stages e ‘(junk)jobs’ da 700/800 euro mese. Secondo: in un percorso di avvicinamento al jazz Hersh è un punto di arrivo, non di partenza. Come ai nostri tempi molti sono arrivati a Coltrane e Davis partendo da Wheather Report, Mahavisnhu, Area, oggi il percorso di un neofita può più facilmente partire da musiche come quelle che si fanno a South London od ad esperienze che non rimuovono il confronto con l’hip hop ed il rap, cui non a caso guardano con attenzione musicisti serissimi e di grande impegno. Tutte realtà che molti della nostra leva guardano un po’ dall’alto in basso, diciamocelo sinceramente, coinvolgendo in questo sguardo sussiegoso anche gli organizzatori che provano ad incastonare proposte simili nelle rassegne da loro curate. Nota bene: non sto parlando delle celebrities un po’ decotte e dei canzonettisti a fine carriera che allietano tanti nostri palchi estivi, ma degli Shabaka Hutchins, dei Theon Cross, dei Robert Glasper (prima maniera), dei Christian Scott, dei Marquis Hill, GoGo Penguin, Snarky Puppy, da noi Yellow Squeeds e pochissimi altri. Ma qui stiamo parlando ‘de iure condendo’, come dicono i legulei….: con il virus che ha già prenotato un posto al Cenone natalizio ed un ministro della cultura che è il primo fautore della chiusura ‘a prescindere’ di teatri, cinema e sale da concerto…… 😉 . Milton56
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