Recentemente mi è venuto in mente il titolo di questo bel libro di Alberto Moravia, forse il nostro unico romanziere di statura europea, oggi completamente dimenticato: ma del resto nella patria di Pinocchio un Grillo Parlante, specie se lucido e caustico come Moravia, non è destinato a grande ascolto.
Guarda caso stavo scorrendo le locandine dei nostri festival estivi e, prima ancora di abbandonarmi a considerazioni di vasto (?) respiro sulla loro impostazione (molto uniforme, guarda caso), sono stato colpito da un particolare: abbondano le proposte imperniate su vere e proprie ‘big band’, o per meglio dire formazioni molto corpose. Sembra di trovarsi di fronte ad un revival dell’Era Swing.
La cosa crea un certo legittimo stupore, dato che sinora non si era sentito parlare granchè di questa abbondanza di grandi orchestre, salve alcune limitatissime eccezioni che si contano a malapena sulle punte delle dita di una mano. In tutta sincerità non si rammenta nemmeno il pullulare di quelle singolari figure che sono gli arrangiatori, cosa spiegabile con il fatto che gli uomini dei ‘charts’ devono necessariamente crescere e vivere a costante contatto di formazioni rodate e con una fisionomia d’insieme forgiata da lunga ed intensa pratica delle scene.
Eppure il miracolo è avvenuto, complici i primi caldi estivi. Ma qual è il repertorio di queste neonate big band? Mi limito ad esaminare qualche esempio a me geograficamente vicino. Frequentemente troviamo partiture ispirate a colonne sonore cinematografiche, tra l’altro abbastanza datate e nemmeno di notorietà epocale. Poi qualche incursione nel campo del soul, oggi pensosamente rivalutato (quanto snobbato ai tempi…). Insomma, mi sembra dubbio persino che la scelta sia motivata dalla volontà di andare incontro a gusti ed inclinazioni che possono tutt’al più riguardare una fascia generazionale di pubblico piuttosto maturo e per di più di memoria alquanto tenace, sia in campo cinematografico che musicale.
Naturalmente non si abbordano brani di più classica letteratura jazzistica orchestrale: infatti Ellington, Basie, per tacere di Gil Evans o di Mingus, non fanno sconti, esigono compattezza e scioltezza che non si improvvisano. E qui siamo alle solite, il marchio ‘jazz’ speso molto estensivamente etc.
Da inveterato materialista, anche quando ragiono di musica, mi viene da chiedermi: per quanto poco possano esser remunerati i giovani orchestrali di queste formazioni, le stesse nel loro complesso costeranno comunque di gran lunga di più di un giovane combo già collaudato e con precisa fisionomia, che anche dopo lusinghieri riconoscimenti di critica stenta ancora a trovare ingaggi che gli diano un po’ di visibilità e notorietà presso un pubblico ampio come quello delle rassegne estive. Questo per tacere del cachet del solista ‘di grido’ che regolarmente accompagna l’orchestra. Una bella contraddizione, considerati i tempi grami che corrono e le ristrettezze di bilancio universalmente lamentate.
E veniamo ad un paio di note sugli esiti più propriamente musicali di queste scelte. In assenza di un durevole retroterra non solo di prove, ma anche di veri concerti davanti al pubblico (che sono tutt’altra cosa), è fatale che la preoccupazione e la tensione per il momento esecutivo irrigidiscano la performance. Aggiungiamoci poi la parte del leone che inevitabilmente spetterà all’illustre solista di volta in volta invitato, e cosa resta? Nel migliore dei casi, essenzialmente della musica diligentemente eseguita, senza mai staccare gli occhi da spartiti magari pure un po’ laboriosi per l’ambizione dell’arrangiatore di turno, che comprensibilmente cerca di sfruttare la rara occasione per far sfoggio di perizia tecnica.
Il punto è che il jazz non si esegue, ma si plasma nel momento della performance infondendogli quel quid – piccolo o grande, marcato o discreto – di imprevedibile duttilità che è la sua essenza irrinunciabile.
Da amatore del sound orchestrale mi auguro di esser smentito, ma il rischio di un’occasione perduta è dietro l’angolo, e riguarda non solo il pubblico (del cui orientamento e crescita mi sembra che pochi si diano pena), ma anche i musicisti, che dopo un ‘diversivo’ così simile alla loro routine professionale in campo sinfonico, operistico o di musica leggera, vi ritorneranno senza grandi rimpianti per un’esperienza di cui ricorderanno soprattutto l’inevitabile precarietà e tensione organizzativa. Ne valeva la pena? Soprattutto al prezzo di emarginare giovani band già strumentalmente affiatate e in avanzata maturazione creativa, che si vedono quindi costrette a prendere la via dell’estero sin dai loro primi passi nella professione? Per me siamo di fronte proprio alle ‘ambizioni sbagliate’ con cui si è esordito…. Milton56
La rimpianta Orchestra di Ritmi Moderni della RAI (una big band vera, in barba grottesca denominazione di stampo quasi littorio…) ha fatto da casa a molti grandi solisti del jazz italiano. Negli anni ’80 è stata anche diretta da grandi arrangiatori come Kenny Clarke-Francis Boland, Andrè Hodeir…. Nel 1992 è stata disciolta insieme alle orchestre sinfoniche di Milano, Roma e Napoli in un raptus penitenziale. Di lei è a stento sopravvisuta qualche clip YouTube. Un bell’esempio di ‘ottimizzazione’…..
Qui nel 1981 accompagna un certo Freddie Hubbard….
1 Comment