Come anticipato in un mio commento recente, il vero jazzofilo è ormai condannato ad esistenza raminga, a mo’ di chierico vagante, alla ricerca del poco di buono che la scena offre. In questi vagabondaggi tra situazioni diverse spesso mi sono venute alla mente considerazioni di carattere generale che, oltre a meglio inquadrare i giudizi formulati sulle singole performances cui ho assistito, potrebbero fornire a molti di voi un utile orientamento nell’assemblare il personale ‘festival patchwork’, che sembra esser l’unica opzione realisticamente disponibile per l’autentico jazzfan
Cominciamo oggi con il primo foglietto di diario
In questi giorni mi è venuto spesso da paragonare il ruolo del direttore artistico di festival a quello di uno chef di cucina. Ovviamente non stiamo parlando né di McDonald né di Nouvelle Cuisine, entrambi esempi di artificiosità, sia pure in forme diverse.
Il nostro cuoco può avere la più grande fantasia e creatività, ma alla fine è determinante un condizionamento oggettivo ed ineludibile: quello che c’è in dispensa.
La dispensa dell’estate jazzistica italiana è purtroppo molto avara e povera. Soprattutto in termini di varietà e di provenienza delle proposte. Si dirà: ma in fondo è positivo che la relativa scarsità di band straniere e soprattutto americane lasci spazio alle formazioni nostrane. A parte il fatto che le nostre band più giovani e propositive ormai appaiono più all’estero che da noi, la chiusura autarchica della nostra scena jazzistica è a mio avviso un male che andrebbe scansato come la peste. Soprattutto quando già per ogni dove si respira aria viziata. Il contatto con esperienze musicali che ancora riescono a registrare come un sismografo le fibrillazioni delle società da cui scaturiscono non può che essere benefico per una scena culturale come la nostra, ripiegata ed immobile come la società che la circonda. E poco rilevano esteriori pistolotti politically correct, se appiccicati su di una musica arcadica e decorativa, incapace di sublimare esteticamente le tensioni ed contrasti che la circondano. Nell’attuale scena americana questa sensibilità – che è in definitiva l’essenza del jazz – sta riemergendo di prepotenza con esiti estetici di rilievo. Purtroppo queste esperienze rimangono in gran parte sconosciute a gran parte del pubblico jazz italiano essendo perlopiù escluse dai cartelloni dei nostri festival. In rare eccezioni sono presentate in collocazioni decisamente secondarie, che presuppongono un pubblico informato e determinato: così si chiude il circolo vizioso, “L’abbiamo scritturato per onor di firma, abbiamo staccato 100 biglietti, visto? mai più…” . E via di gelato al limone….a prezzi da gioielleria.
Forse sta anche a noi del pubblico rinunciare all’ “usato sicuro della nostalgia” ed a scommettere un po’ più spesso sulla curiosità. O no? Milton56