Salto triplo, voci diverse da casa Mack Avenue.

Lampi di fine estate da casa Mack Avenue, meritoria label di Detroit che seguiamo con particolare attenzione e dal cui interessante e saccheggiabile catalogo abbiamo pescato tre dischi affatto diversi tra loro, di vocalist in cerca di definitiva consacrazione.

Spicca nettamente il lavoro di Veronica Swift, le cui “Confessions” pongono questa ragazza venticinquenne newyorkese meritatamente al centro dello spotlight, con grande eleganza e totale proprietà di linguaggio. Del resto la ragazza è cresciuta in un ambiente che più jazz non si potrebbe: doppiamente figlia d’arte, il papà era l’ottimo Hod O’Brien, pianista d’inclinazione boppistica scomparso nel 2016 assai apprezzato negli States e meritevole di una riscoperta, e della cantante Stephanie Nakasian che a volte si esibisce in duo con Veronica, com’è recentemente capitato ad Umbria Jazz. Nel 2015 c’era stato un primo disco come leader ma è questa l’incisione che potremmo considerare come vero, fulminante esordio sulla scena mondiale, accompagnata da due trii pianistici di livello assoluto, con Emmet Cohen e Benny Green a dividersi le sedute di registrazione, in pratica quanto di meglio si possa avere per viaggiare in prima classe, due musicisti che peraltro hanno suonato molte volte con la Swift in notti newyorkesi spese proficuamente tra il Birdland e il Blue Note.

 

 

 

 

                                                                                                                                                con la Jazz at Lincoln Jazz Orchestra

La tracklist di “Confessions” sciorina pezzi scelti con intelligenza e cura certosina, tra i quali spiccano una magnifica versione di “The Other Woman” resa immortale da Nina Simone, una sorprendente “A Little Taste” di Johnny Hodges, la divertente “I’m Hip” del grande Dave Frishberg. Scivolano i brani e le influenze si sovrappongono, sviluppate naturalmente e riassunte con personalità e stile, ecco che s’intuiscono con facilità gli amati profili di Sassy, Anita O’ Day, Ella…tanta roba, insomma, fin dal primo brano in scaletta, il celebre “You’re Gonna Hear From Me” bazzicato da Sinatra, Diana Ross, Barbara Streisand ed ora da Veronica Swift che sembra far suo l’abbrivio

“Everyone tells me to know my place
But that ain’t the way I play
So why am I daring to show my face?
Well, I’ve got something to say…”

La francese Cyrille Aimée, concittadina di Django Reinhardt, ha tentato con “Move On” di affrancarsi da uno stile che si è cristallizzato in una sorta di zona franca in cui convivono, più o meno felicemente, gipsy jazz ed edulcorato pop/jazz, concependo il suo album più coraggioso, dedicato alle tarde composizioni di uno dei geni di Broadway, Stephen Sondheim, compositore e soprattutto paroliere di opere immortali, tra cui West Side Story di Leonard Bernstein, e la cui produzione più recente è stata assai poco bazzicata in ambito strettamente jazzistico. Una formazione allargata, con alcuni assi (Gregor Huebner al violino) si addentra nella poetica sondheiniana, che la Aimè fa sua con grazia e sebbene la struttura dell’intero lavoro risulti -volutamente- un po’ leggerina, si tratta a nostro avviso di un notevole passo in avanti per Cyrille, che brilla particolarmente negli episodi intimi e minori (“Marry Me A Little” con chitarra in primo piano e sventagliata di archi) e nelle escursioni latin (“Being Alive” con percussioni e fiati sugli scudi), oltre a quando gioca in casa, nelle atmosfere à la Django di “So Many People“.

Percorso vagamente inverso per miss Jesse Palter, che si è trasferita a Los Angeles ed abbandona (definitivamente? ah, chi può dirlo, valle a capire le donne…)  l’ambito jazzistico per imboccare, dopo alcune avventure elettroniche, una strada rock/cantautorale trafficatissima -la ragazza adora anche Carole King, e si sente- mettendosi a caccia di qualche power-hits per il grosso pubblico. A mio avviso in questo senso potrebbe fare centro su un parterre over ’40 con “Heavy Is the Crown“, canzone che rimanda agli anni ’90, da cantare sotto la doccia incuranti delle ciabattate al muro dei vicini. Certo, l’elegante swing con cui Jesse si era messa in mostra (credetemi sulla parola, era un gran bel vedere) pochi anni fa è stato messo per ora in un cassetto, ma chissà che questo disco non si riveli come un semplice episodio di percorso.

jesse palter

In “Paper Trail“, nove brani originali di cui il booklet purtroppo non fornisce i testi, i pezzi più accorati (“Heart So Cold” , per esempio, o la stessa “Alright in Time“) soffrono di eccesso di patinatura, arrangiamenti rock enfatici in crescendo, batterie anonime che pestano il tempo rendendo il tutto piuttosto artefatto ed il tasto skip lavora febbrilmente, fino alla semplice “Goodbye My Friend“, finalmente pianoforte,  voce ed archi a sostegno, che chiude l’album con un sospiro che potrebbe essere pure il vostro, di sollievo.

 

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