Troppa musica…..

Benoit Maubrey, “Speakers wall”

Siamo assediati dalla musica, spesso offertaci od impostaci contro la nostra volontà, la ‘musica passiva’ che un mio collega acutamente stigmatizzò tempo fa.

Ovviamente la qualità di questa sonorizzazione ubiqua che ci circonda è scarsa, spesso pessima: questa musica diventa un fattore di stress contro cui erigiamo anche inconsciamente un muro di disattenzione, la ‘sentiamo’ senza ‘ascoltarla’: e già questo è un danno all’attitudine ad un’ascolto concentrato.

Ma la ‘troppa musica’ non è solo quella che ci viene imposta dall’esterno. E’ anche quella che, complice la debordante ed indifferenziata offerta che proviene dal web e dalle piattaforme di streaming, anche noi stessi cumuliamo di nostra iniziativa, spesso rimandando ad un futuro imprecisato il suo ascolto (o per lo meno uno attento).

La polverizzazione e la labirintica complessità della scena musicale di oggi spiegano in parte questa vera e propria pulsione: spesso insoddisfatti da quel che ci proviene dalle fonti più note e prossime, supponiamo e speriamo che in chissà quale remota terra promessa in realtà si nasconda la musica che abbia ancora la capacità di stupirci ed emozionarci.

Si va quindi fatalmente verso un ascolto ‘compulsivo’, impaziente, smanioso di classificare al primo colpo musiche che ci giungono magari in un momento personale ed emotivo non adatto alla loro ricezione. La mole di files accumulati incombe su di noi, impedendoci spesso di riascoltare in diverse condizioni, personali ed ambientali.

Tutto questo finisce per travalicare la dimensione soggettiva dell’ascoltatore, perchè a lungo andare rischia di influire anche sulle proposte musicali degli artisti più orientati al successo ed alla presa sul pubblico, che cominciano a battere la strada di creazioni fatte per brillare e sedurre, imponendosi su vasta offerta simile : fatalmente si tratta di musiche che puntano su effetti vistosi, esotismo di facile presa, ibridazioni artificiosamente concepite ‘in vitro’. Il tutto ovviamente va a scapito di creazioni più meditate e profonde, che richiederebbero più tempo e minor visibilità e presenza sulla scena mediatica. Quindi, ed anche al di là di ogni intenzione, ecco dilagare di fatto una musica ‘da consumare’.

L’ascoltatore più avveduto, bruciato in un’istante il fascino di queste ‘musiche d’effetto’, non tarda a individuarle come opere manierate e soprattutto incapaci di metter radici nell’immaginario: riparte quindi la ricerca di qualche altra ‘novità’, che avverrà quasi sempre cumulando altri ascolti ‘compulsivi’ e superficiali. E qui si si chiude il circolo vizioso.

Come uscirne? Partiamo dal nostro piccolo di appassionati di musica, un po’ delusi e frustrati: cominciamo a metter un po’ da parte quantità indifferenziata e curiosità superficiali per puntare in modo più ragionato e selettivo su filoni musicali dotati di una loro continuità e di ascendenze riconoscibili. Anche se queste musiche possono peccare spesso di assenza di ‘glamour’, concediamogli degli ascolti meno casuali, ritagliandoci per gli stessi dei momenti ‘protetti’ dal caos e dallo stress della quotidianità e soprattutto dalla condivisione con altre attività che, per quanto meccaniche o banali, finiscono comunque per abbassare la soglia dell’attenzione.
Ascoltare musica in modo attento e concentrato non è ‘non far nulla’: come molte avanzate ricerche in campo neurologico dimostrano, ha un influsso profondo ed importante sulla nostra mente e sul suo equilibrio.

E soprattutto riascoltiamo, cogliendo quelle complessità e quei dettagli che nessun ‘primo ascolto’ schematico e classificatorio è in grado di rivelare pienamente, soprattutto in musiche concepite attentamente e con profondità di visione.

Infine un piccolo sogno, ma non irrealizzabile: condividere la musica con altri, meglio se di gusti ed inclinazioni diversi dalle nostre. Solo così troveremo il modo di far affiorare in parole emozioni e sensazioni indotte dalla musica, diversamente destinate a svanire come un sogno. Ed a ben pensarci, è proprio questo segreto desiderio di condivisione a muovere l’esperienza di questo blog….. Milton56

9 Comments

  1. Più che un commento una condivisione: da ragazzi l’acquisto di un nuovo Lp era avvenimento non solo di natura economica (mica era facile raggranellare le 5mila lire necessarie per un album) ma sopratutto di gruppo. Quante ore passate con gli amici ad ascoltare il nuovo Zappa piuttosto che i Cream o i Jefferson. E quante discussioni, quanti pareri diversi anche se accomunati da una passione per la musica che per alcuni di noi ha segnato la vita anche da adulti. La scelta allora era abbastanza ristretta, si pubblicava molto molto meno rispetto ad adesso, e gli strumenti per ascoltare musica erano pochi e limitati: qualche sparuto programma alla radio, qualche trasmissione televisiva, un pugno di magazine ed un impianto che definire hi-fi era pura boutade. Eppure ogni album veniva letteralmente vivisezionato, il vinile arato dai continui ascolti. Oggi invece, come giustamente affermi, l’offerta è talmente debordante che è difficile dedicare più di un paio di ascolti ad ogni nuova uscita. L’assurdo è che di dischi complessivamente se ne vendono sempre meno in misura inversamente proporzionale ad una continua messe di pubblicazioni. I negozi di dischi chiudono e la maggior parte degli ascolti si consuma sui motori streaming. Tutto questo può far perdere la misura, ed io sono tra coloro che affastellano album da ascoltare in un improbabile domani, sempre più affannato a rincorrere le vicende della vita. E la musica raramente ritorna un piacere, proprio come la si ascoltava da ragazzi, ora è più un sottofondo, un contorno, non più un tappeto sul quale poggiare i propri sogni, un cesto di emozioni e di colori ai quali attingere nei momenti quotidiani. Forse dovremmo fermarci, o almeno provare a farlo. Cercare di nuovo quelle vibrazioni che, grazie alla musica, ci facevano immaginare un futuro che non poteva che essere degno di essere vissuto. E, lo dico per me, forse sarebbe anche il momento di smettere di usare la tastiera, di andare ad un concerto solo per il piacere di farlo, di ascoltare la musica quando e se ce nè voglia, tempo e ispirazione e senza il secondo fine di scriverne o commentare.

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  2. Sapevo che avrei smosso ricordi di questo tipo, che è giusto condividere con chi invece ha conosciuto solo tutt’altre condizioni di ascolto della musica, da tempo più solitarie ed individualistiche. Chi avrebbe detto che un simpatico aggeggio come il Walkman avrebbe dischiuso una nuova era dell’ascolto musicale? Eppure si dice che il patron della Sony all’epoca fece impazzire i suoi ingegneri per far inserire sul primo modello due prese cuffia, perché non riusciva a concepire l’idea che a qualcuno interessasse ascoltare musica in assoluta solitudine… Tu poi hai efficacemente tratteggiato il rapporto che allora avevamo con la musica, che allora era un oggetto di DESIDERIO: qualcosa di difficile da scegliere, da procurarsi ed infine da conservare e godere. Qualcosa che COSTAVA, e quindi a cui bisognava riservare cura ed attenzione, sia prima che dopo il sudato acquisto: sotto questo profilo, l’illusione della gratuità – meglio, dell’invisibilità del costo – della musica è oggettivamente qualcosa che ha determinato la sua svalutazione nella sfera dell’esperienza quotidiana. Di qui a trattarla come un semplice sottofondo, perdipiù disponibile in quantità strabocchevole e sempre ed ovunque, il passo è purtroppo molto breve. Quello successivo è quello di una specie di ‘sordità emotiva’, peraltro opposta ad un’offerta musicale che cresce pressocchè solo quantitativamente, una specie di ‘musica a bassa intensità’ dove le pailletes d’effetto oppure anche una fredda e calcolata cerebralità coprono vuoti di contenuto espressivo. E questa è un’insidia ancora più grande per una musica come il jazz, che in forme e modalità diverse non può non essere che una musica dell’urgenza, una musica ‘necessaria’, come mi è capitato spesso di dire. Necessaria come quella che ascoltavamo in tempi in cui era diventata l’esperanto di una generazione, capace di attraversare i confini delle lingue e spesso anche quelli di filo spinato. Milton56

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  3. Bravo Milton, cerchiamo di ritrovare il “paradiso perduto”!
    Sono molto d’accordo quando dici che il jazz è una musica “necessaria”, ma non si può impedire a chi non la apprezza di fare come gli pare.
    È già tanto, quelle rare volte che capita, trovare luoghi come questo, e ritrovarcisi… bene.

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    1. Caro Fa Minore, il mio ‘necessaria’ si riferisce solo all’indispensabile urgenza espressiva che deve muovere il jazzman (purtroppo oggi ce ne sono parecchi che inclinano verso una certa Arcadia calligrafica, ed altri verso un intellettualismo che sa di accademia ). Mi guardo bene dal sognare il jazz come musica diffusa a livello di massa nel nostro Paese, che ha DNA musicale molto diverso. Sarei già contento se nelle sparute riserve indiane in cui ancora se ne suona e se ne ascolta un po’ non calassero trafficanti di pessima acqua di fuoco adulterata. Milton56

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    2. Sono “cara”, my name is Francesca, Francesca Bond 😀
      Non capisco bene, perché sono solo un’appassionata dilettante, cosa siano l’Arcadia calligrafica o l’intellettualismo da accademia.
      Ho in mente un certo numero di “trafficanti”, ma forse non sono quelli a cui ti riferisci tu. Parlo di “creazioni fatte per brillare e sedurre, ecc.”.
      Ma io non ci casco e butto lì uno spunto: perché le donne non amano il jazz?

      […]
      Le donne odiavano il jazz
      “non si capisce il motivo”
      […]

      Non sarà che il problema è più trasversale? Comunque l’allusione di Paolo Conte non mi sembra poi troppo peregrina…

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