James Carter: un sax a cavallo del tempo

 

Anticipato dal fiuto dell’amico Milton qualche settimana fa su queste pagine, il nuovo lavoro del sassofonista statunitense James Carter, all’ascolto completo si rivela meritevole di un piccolo, ulteriore approfondimento. Senz’altro per sottolineare la grande performance dei protagonisti – insieme ad un Carter assente da anni dalle scene discografiche ed in cerca di un meritato riscatto con un nuovo contratto Blue Note, Gerard Gibbs all’organo ed Alex White alla batteria – , ma ancor di più per apprezzare l’ideazione di un progetto, quello portato sul palco di Newport nell’agosto 2018, che riassume in sè con efficacia simbolica una buona parte di storia del jazz. Se il materiale di partenza è stabilmente collocato nell’epoca più remota, gli anni ’30 del chitarrista Django Reinhardt, e la formazione richiama inevitabilmente la stagione del soul jazz fiorita a metà del secolo scorso, il linguaggio utilizzato dai tre musicisti è un concentrato di tradizione e libera creatività, con il sax di Carter che si concede spesso luciferine zampate free e la ritmica a scandire beats fortemente radicati nella contemporaneità. Solo sei pezzi, tutti di Reinhardt tranne “La valse des niglos” portata al successo dal Trio Ferret, per una durata compresa fra i sette e gli undici minuti, in modo da prendersi tutto il tempo necessario ad omaggiare le melodie, strutturare i lunghi assoli che attraversano il disco, e ricostruire, nel gioco collettivo, un tessuto musicale esaltante e pronto a sorprendere ad ogni passo. Acclimatatevi, quindi, con le calde sonorità bluesy dell’organo di “Le manoir de mes reves”, accompagnata dalle note del sax in una dimensione swingante preludio ad una sezione centrale investita da lapilli free e ad un finale giocato in call and response fra l’organo ed un sax multiforme. Scattate in piedi al secco attacco ritmico funk della batteria dii “Melodie au crepuscule”, un pezzo che prosegue, fino alle pirotecniche invenzioni del sax di Carter sul finale, con un andamento ritmicamente esuberante fra assoli dell’hammond e del tenore. Lasciatevi sorprendere dal perfetto timing e dalla carica di Carter all’ingresso nella ballad “Anouman”, terreno per intensi soliloqui di Gibbs, che precedono l’esposizione ricca di pathos e virtuosismo di Carter, inclusa respirazione circolare e parossismi noise. Immergetevi poi nella presa ad alta tensione di “Le valse des niglos”, con la sua giungla di percussioni condotta impeccabilmente da White, e godete le mille sfaccettature timbriche di un solo di sax da gigante, in grado di passare dal suono pieno al fischio più acuto, senza perdere un attimo di coerenza e senso della costruzione. Oppure lasciatevi trasportare dal quieto andamento di “Pour que ma vie demeure”, senza trascurare la sortita finale del soprano, ed esaltatevi con le conclusive angolature boppistiche di “Fleche d’or” supportate da un passo ritmico implacabilmente funky.
Ovunque lo prendiate, un disco ed una performance esuberante ed appassionante, ed un ottimo, aggiornato biglietto da visita per un pieno rilancio, dopo un periodo di scarsa esposizione, per il nome del cinquantenne sassofonista di Detroit.

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