Nel film “La scuola” di Daniele Luchetti, del 1995, c’è una scena in cui il prof. Silvio Orlando sorprende, durante la lezione, uno studente che ascolta con le cuffie dal walkman. Gli sequestra l’apparecchio e, a fine ora, gli chiede cosa stesse ascoltando. “Bill Frisell, professore”. “Beh, fammene una copia” . Il 1995 è l’anno di “Deep Dead Blue” registrato dal chitarrista di Baltimora in duo con Elvis Costello durante il Meltdown Festival alla Queen Elizabeth Hall di Londra, una magistrale prova di minimalismo “orchestrale”, e dei due dischi dedicati a sonorizzare i film di Buster Keaton. Ma prima di allora la carriera di Frisell era già una piccola storia espansa nelle direzioni più varie: dal trio di Paul Motian con Joe Lovano, all’approdo in casa ECM, propiziato da Pat Metheny, prima con Eberhard Weber e poi con i primi avventurosi lavori solisti (“In Line”, “Rambler”, “Lookout for hope”), la partecipazione alle estreme scorribande dei Naked City di John Zorn, e la graduale definizione di un’estetica personale che agli inizi degli anni novanta trovava il suo punto di maturazione del trittico di album pubblicati per Nonesuch. “Where in the World?, con Joey Baron, Kermit Driscoll e Hank Roberts al violoncello, “Have a little faith” con Don Byron , Guy Klucevsek Kermit Driscoll, Joey Baron, forse il più ammirevole dei tre per il tentativo di ricostruire un personale omaggio alla musica americana mescolando sacro e profano, Aaron Copeland e Charles Ives con Bob Dylan, John Hiatt e Madonna, e “This land”, ancora con il clarinetto di Don Byron, il trombone di Curtis Fowlkes, il sax di Billy Drewes, ed i soliti Driscoll e Baron alla ritmica. Da allora, verso la fine degli anni ’90 e l’album “Quartet” che riprendeva alcuni dei temi composti per il film di Luchetti, inizia con “Nashville” l’immersione di Frisell nella musica tradizionale americana, folk, blues, country and western che, alternato a ritorni verso una più definita dimensione jazzistica – negli album con Elvin Jones e Dave Holland, o con Ron Carter e Paul Motian, fino al più recente “Lebroba” in trio con Andrew Cyrille a Wadada Leo Smith – ha caratterizzato gli anni duemila del placido Bill. Ma si sa che il suono della chitarra di Frisell, così personale da essere facilmente riconoscibile, è in grado di attraversare i territori musicali più disparati, senza che il suo autore si curi minimamente di etichettare i generi . La sto prendendo un pò alla larga per dire, a malincuore, che il nostro ha fatto di recente una cosa che mai mi sarei aspettato da un ospite fisso, rappresentato nella sua intera opera, o quasi, dei miei scaffali. Un disco che non mi è piaciuto. Parlo di “Harmony”, pubblicato di recente da Blue Note ed esplicitamente dedicato alla ricerca della comunione armonica, da intedersi come principio delle relazioni umane, tradotto in musica dall’unione fra la chitarra del leader, l’ugola di Petra Haden, figlia del grande bassista Charlie, il cello di Hank Roberts e la chitarra baritono di Luke Bargman.
Si, avrete intuito che si tratta di un lavoro immerso in una dimensione quasi cameristica ed eterea. Aggiungo che la maggior parte del materiale è nella vena country/ americana di cui si diceva sopra, con brani originali di Bill, un traditional cowboy cantato a cappella, e tre brani noti come “Lush Life” di Billy Strayhorn, “Where all the flowers gone” di Pete Seeger e la già citata “Deep dead blue”. Ebbene, nonostante l’innegabile cura e raffinatezza negli arrangiamenti, le atmosfere intime ed il tentativo di cogliere l’intensità emotiva tramite la distillazione delle strutture musicali, il disco, dopo assidua frequentazione, continua a risultarmi indigesto. Purtroppo ciò che, secondo me, pregiudica il risultato è la vocalità “trasparente”della Haden, uno strumento intonato, tecnicamente ineccepibile, ma che fatica a trasmettere emozioni, perdipiù spesso impiegato in modalità wordless, con armonizzazioni di sapore infantile, tipo filastrocca (“Everywhere”, “Fifty years”, “Lonesome”, “How many miles”, “Curiosity”). Un’avvisaglia la si era avuta nel tour del 2018 quando Frisell, con Thomas Morgan, Rudy Royston e la Haden aveva portato in tour l’album “When you wish upon a star”. Ma qui gli equilibri si sono invertiti, e la voce domina tutto il materiale, riservando ai tre strumenti a corde un ruolo che è difficile definire paritario. Tralascio l’impietoso confronto fra gli standards in scaletta e altre versioni (ma confrontate la Haden con Costello e capirete tutto), per segnalare la presenza dello splendido “There in a dream” di Charlie Haden, già inciso in versione strumentale con il Quartet west, e di “On the street where you live” dal musical “My fair lady” incisa fra tanti, anche da Rickie Lee Jones. Ho deciso di scrivere dopo ripetuti ascolti, molti tentennamenti, ed una sollecitazione della redazione. Sto già preparando le barricate per difendermi dai frissellomani che non hanno dato alcun segno di cedimento apprezzando, in linea di massima, “Harmony”. Io, dopo anni di ascolti soddisfacenti , questa volta mi fermo un giro.
Per usare un tuo termine di definizione sono un frisellomane fin dai tempi dei primi album del nostro. Ho molto amato il trio con Motian e Lovano e moltissimo i trii/quartetti iniziali. Da tempo penso che il nostro eroe sia entrato in una parabola artistica discendente, del tutto dignitosa, ma molto lontana dai picchi raggiunti in gioventù. La maggior parte degli album degli ultimi anni si potrebbe etichettare sotto la voce “Americana”, termine entro il quale si racchiude molta musica assai diversa, ma certamente molto lontana dalla voglia di sperimentare e di ricercare che è stata a lungo la caratteristica di Frisell. Quindi, come te, grande stima per Bill, ma salto un giro. Anzi, io ne ho già saltati parecchi altri…
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Condivido totalmente, forse il disco più brutto di Frisell. Con tutta la buona volontà, Petra Haden è per me inascoltabile.
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