Il recente articolo del collega Milton in veste di “avvocato del diavolo”, ricco di gustosi aneddoti sulla controversa incisione di “Volver”, protagonisti Enrico Rava con il quartetto di Dino Saluzzi, a seguire un mio ripescaggio di quel disco ECM del 1986 , ha riproposto, amplificato poi dai commenti di alcuni jazzfans, una questione ricorrente : quanto la musica sia influenzata dal clima che si respira fra i musicisti riuniti per suonarla, ed in che misura questa dialettica si trasferisca all’ascoltatore. Non credo di essere l’unico ad avere apprezzato il disco del 1986 di Rava/Saluzzi, eppure le cronache della seduta di registrazione riportano di un clima costantemente prossimo al fallimento totale, con un Manfred Eicher disperatamente aggrappato a qualche spunto di composizione. Ho trascorso alcuni mesi ad intervistare musicisti jazz, per cercare, fra l’altro, di capire quanto siano importanti i legami interpersonali per la creazione di una musica che deriva molto del proprio fascino dal tema dell’incontro, del dialogo fra culture ed idee diverse. Con pochissime eccezioni, ho avuto la conferma che l’intesa sul piano musicale risulta, in genere, fortemente condizionata dalla capacità di apertura, di trasparenza sul piano della relazione umana, anche se in molti hanno riconosciuto una sorta di alterità della comunicazione sul piano musicale rispetto al rapporto di conoscenza, quasi che il dialogo tra strumentisti possa vivere in un mondo a parte rispetto a quello tra persone, fornendo risultati soddisfacenti ed emozionanti anche se frutto della creazione di persone che magari neanche parlano la stessa lingua. Ma cosa viene restituito a chi ascolta di queste dinamiche? Poco, verrebbe da pensare, visto l’esempio citato, a conferma del fatto che l’opera ed il suo creatore sono entità assoltamente indipendenti, e la percezione e valutazione qualitativa del risultato da parte dei fruitori sono influenzati da variabili imponderabili, che non escludono una predisposizione estemporanea dovuta anche ad effetti esteriori. Un processo in qualche modo inevitabile, che riguarda tutte le forme d’arte. Per citare un caso inverso a quello di “Volver”, c’è un disco che da mesi inquieta i miei ascolti per la mia incapacità di completa sintonizzazione, nonostante la curiosità e la stima per i musicisti coinvolti. Si tratta del secondo volume del tributo del batterista Cristiano Calcagnile alla musica di Don Cherry, “The gift of toghertness“, inciso nel 2015 con Massimo Falascone, Paolo Botti, Gabriele Mitelli, Nino Locatelli, Pasquale Mirra, Dudu Koutè e Alberto Braida e pubbblicato da Caligola records. In questo caso la soddisfazione dei musicisti per la riuscita dell’operazione è stata palese, tanto che dopo “Multikulti Cherry on” del 2016, il gruppo ha deciso di proseguire il percorso con un secondo volume tratto da quelle sedute ed integrato con successivi apporti in studio.
Il disco rivela indubbie qualità sul piano dell’inventiva corale e della creazione collettiva che valorizza i contributi dei singoli musicisti, rivolti ad una nuova lettura di alcuni brani di Cherry, ma anche di Coleman e Dewey Redman, inframezzati ad originali scritti sempre collettivamente. Ho apprezzato l’esposizione corale di “Togheterness” , la celebre “Brown rice” resa con un crescendo funky che si estende progressivamente, la citazione splendida dalla “Symphony for improvisers” che chiude la Communion Suite nella versione dal vivo, partendo da un timido accenno del tema del violino per conquistare progressivamente con il proprio andamento avvolgente. Ma non riesco a “spiegarmi”, a ricavare (o attribuire) un significato da pezzi come l’iniziale “The gift”, accumulo di brevi frasi espresse dai vari strumenti prive di struttura portante o sviluppo tematico, o da “Choesiveness”, esili linee dei fiati in alternanza con le corde della viola di Botti in pieno clima da austera contemporanea, o una “Birds Suite” sfrangiata in una spaziale intro del piano elettrico di Braida seguita da una sezione collettiva libera. Problemi miei con il free jazz, direte, e forse è così, oppure qualche eccesso di libera inventiva che prende la mano anche a musiciti esperti quando si tratta di confrontarsi con materiale di illustri “ancestors”, come suggerisce un collega di redazione. Continuerò comunque a mettere alla prova la mia curiosità. Nel frattempo una notazione. Ho acquistato un cd usato, ne ho parlato su queste pagine e Milton ha arricchito il racconto con un pepato dietro le quinte della seduta di incisione. Molti lettori hanno fornito in varie sedi il proprio contributo al tema del rapporto musicisti/musica/ascoltatori. Rob ne ha tratto ispirazione per ripescare un altro disco ECM di David Torn, da affiancare alla più recente uscita “Sun of goldfinger”. Da qui siamo arrivati a Calcagnile/Cherry. Una pluralità di spunti che hanno generato altro materiale. Come lo chiamereste tutto ciò, se non una specie di jazz?